Bataclan, tutti uguali e tutti terribilmente indifesi

Era un venerdì come tutti gli altri, uno dei tanti venerdì che arrivano dopo il giovedì e prima del sabato. Era uno di quei venerdì che segna l’inizio del fine settimana, era un venerdì del “Finalmente oggi è venerdì!”. Per alcuni era un venerdì aspettato da tempo, quello del “Non vedo l’ora arrivi stasera!”.
Era solo un venerdì e sarebbe rimasto tale, se non fosse che l’estremismo ha voluto che per un numero indefinito di persone, il 13 novembre del 2015, diventasse “quel venerdì”.
Quel venerdì fatto di spari, urla, sangue e morti. Quel venerdì, indimenticabile per alcuni. Quel venerdì come tanti altri venerdì per altri che vivono lontano da quegli alcuni.

Dopo la notte del 13 Novembre gli articoli continuano a susseguirsi senza sosta. I giornali scrivono di quello che sta accadendo e di quello che potrebbe accadere. Scrivono, spiegano, illuminano e allarmano. Sono giorni in cui se si volesse smettere di vedere e conoscere, l’unica possibilità sarebbe quella di spegnere la tv, il computer e la radio. È finito il tempo in cui si era liberi di giustificare il “non sapere” dando la colpa alla cattiva informazione. In questi giorni fatti di “abbiamo in collegamento da Parigi”, se si vuole far finta di niente, ci si può solo isolare.

L’isolamento non è però il mio forte, così non posso far altro che leggere, ascoltare e rabbrividire.
«Al Bataclan sparavano contro i disabili», «Uccisi disabili in sedia a rotelle: la barbarie jihadista al Bataclan» sono questi i titoli che hanno creato in me uno stato di disagio. Uno dei tanti stati di disagio che bisogna imparare a trattenere e controllare.
Non è stato causato dalla crudeltà che queste testate giornalistiche volevano testimoniare, ma dal mio non riuscire a percepire nulla di diverso della voglia di far aumentare la sofferenza provocata dalla stretta allo stomaco che ci prende guardando quei video che, forse per disabitudine, ci colpiscono più di altri.

imageL’istinto della maggior parte di noi potrebbe essere stato quindi quello di reputare gli attentatori ancor più meschini e scorretti per essersi accaniti persino verso chi, a prima vista, appare sicuramente più indifeso di altri. Non che ci sia qualcosa di sbagliato. Probabilmente iniziare a uccidere partendo da un gruppo di fan disabili era il modo migliore per mostrare a tutti, la forza e la freddezza di chi puntava l’arma e premeva il grilletto. Volevano rendere, chi aveva già paura,  terribilmente cosciente di quanto potesse essere facile morire e di come non avrebbero fatto alcuna distinzione.
Nessuno sarebbe stato risparmiato e semmai qualcuno fosse riuscito a conservare intatto il corpo, lo avrebbe fatto per pura fortuna e in ogni caso, sarebbero riusciti a graffiare o distruggere senza dubbio la loro l’anima.
Ma come spesso accade, esiste un “ma”.
Io sono disabile quindi so di essere una persona indifesa, “ma” so di esserlo in situazioni molto meno orribili di quella. Io, Valeria Pace, sono indifesa davanti al vento, alla pioggia, a un marciapiede e persino davanti ad un’ape. So quindi che se “quel” venerdì mi fossi trovata in uno di quei luoghi non sarei stata in grado di scappare. Ogni tentativo di togliere i freni alle ruote della mia sedia a rotelle e qualsiasi fosse stata la forza che l’adrenalina mi avrebbe regalato, per me fuggire sarebbe risultato vano.
Costretta lì seduta, avrei solo potuto chiudere gli occhi e sperare che morire non facesse troppo male.

Ma come non c’è e non può esserci differenza di fronte alla crudeltà, qualunque sia stata l’azione che l’abbia fatta scattare, allo stesso modo non può e non deve esserci differenza tra disabili e normodotati di fronte ad una crudeltà che vuole togliere la vita, i ricordi, e spegnere l’anima.
La violenza è violenza, e nonostante questa possa essere manifestata in un’infinità di modi, la violenza rimane, in ogni caso, violenza. Non si deve provare a colpire maggiormente la sensibilità di qualcuno facendo leva sulle incapacità fisiche dei soggetti verso cui quella stessa violenza è stata rivolta, o per lo meno, non sempre si può fare.
Noi disabili lottiamo per essere considerati uguali a chi disabile non è. Le istituzioni e giornali, a volte, si fanno carico delle nostre lotte alzando la voce contro le differenze, ma per quel venerdì, questo non era necessario. Non è sempre giusto, infatti, considerarci “diversi ma uguali” in alcuni casi e, solo ed esclusivamente “diversi”, in altri.

Gli essere umani possono e devono essere considerati uguali di fronte a chi li vede e quindi di fronte alla vita. Quel venerdì però, erano tutti uguali perché tutti guardavano in faccia la morte, perché tutti erano di fronte a chi non vede nessuno, perché non c’era vita che valesse più o meno delle altre.
Perché Quel venerdì, dentro al Bataclan, erano tutti uguali e tutti terribilmente indifesi.

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