Brexit: l’autogol di Cameron?

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Il 2016 verrà probabilmente ricordato come l’anno di maggior difficoltà per l’Unione Europea. In realtà, se proprio vogliamo essere onesti, le difficoltà della Comunità si trascinano da un po’.

In principio la recessione, i tonfi delle borse e il tanto odiato spread. Sembrava quasi che la crisi avesse spaccato in due differenti gruppi l’Unione: da un lato i paesi nordici, severi, con i conti (apparentemente) in ordine e pronti a dare consigli (non richiesti) ai paesi del secondo gruppo, quelli mediterranei, a crescita zero, pieni di debiti e a rischio default.

Per anni la politica comunitaria è stata analizzata, criticata e perfino strumentalizzata. Termini come “spending rewiew” “sobrietà”, “rigore” e “spread” sono entrati nel quotidiano di ogni cittadino del Continente. Per anni, inoltre, abbiamo assistito alle “richieste” della BCE, alla caduta di governi e alle cure lacrime e sangue degli esecutivi tecnici.

Ad oggi però, possiamo dirlo: la politica economica europea del rigore è stata un fallimento. Perfino la cancelliera tedesca Merkel, principale sponsor di tale politica, ha dovuto ammettere che i sacrifici imposti ai paesi in difficoltà hanno soltanto aumentato l’incertezza di un’Europa che non riesce ripartire, a differenza del resto del mondo.

Come se non bastasse, ad aggravare le mai sanate fratture interne, ci si è messa anche la crisi migratoria. Se fino a qualche mese fa la questione era circoscritta all’area mediterranea (e quindi lasciata alla gestione dei singoli Stati, Italia in primis), dall’estate 2015 ad oggi la situazione è nettamente peggiorata. L’acuirsi della guerra civile siriana, infatti, ha costretto centinaia di migliaia di persone a fuggire verso il vecchio Continente, terra di democrazia e patria dei diritti umani.

A quanto pare però, per la stragrande maggioranza degli Stati europei, la difesa dei diritti umani si applica sono all’estero. In mancanza di una politica comune per fronteggiare l’emergenza, ogni Stato ha agito autonomamente, issando muri, reticoli di filo spinato e perfino sospendendo Schengen.

Alla faccia delle regole.

Ed è anche grazie alle inefficienze di Bruxelles, che molti partiti xenofobi o nazionalisti hanno preso piede. Dal Front National di Marine Le Pen in Francia, agli olandesi del PVV di Wilders, all’italica Lega Nord, che sembra aver abbandonato la lotta ai terroni per concentrarsi contro immigrati e burocrazia comunitaria, fino all’Ukip di Farage nel Regno Unito.

E adesso, proprio il Regno Unito rischia di trasformarsi nell’ennesimo capitolo critico dell’Unione.

Quando David Cameron arrivò a Downing Street, promise agli elettori britannici che avrebbe rinegoziato i patti con Bruxelles per ridare maggior autonomia decisionale alla Gran Bretagna. La paura per l’improvvisa crescita dei movimenti anti europeisti anche all’interno dei due principali partiti britannici ha perfino spinto il primo ministro ad ipotizzare un referendum in cui i cittadini del Regno avrebbero scelto se restare o meno nell’UE.

Le istituzioni europee, alle prese con la crisi greca, sottovalutarono la minaccia britannica, bollandola come un bluff. Fin da subito, infatti, apparve chiaro che Cameron avesse alzato volutamente l’asticella dello scontro, al fine di ottenere maggior potere contrattuale in sede comunitaria.

Adesso però, il Primo Ministro britannico è rimasto vittima del suo stesso bluff. Nonostante le aperture della Commissione, pronta ad accettare tutte (o quasi) le richieste britanniche, a Londra molti esponenti politici di maggioranza si sono fin da subito schierati per un netto “yes” all’ipotetica uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Perfino il governo di Sua Maestà si è spaccato, con numerosi ministri pronti a sostenere il “Brexit”.

Il dado è quindi tratto. Il 23 giugno 2016 i cittadini britannici saranno chiamati alle urne per decidere se restare o meno in Europa. Da ogni parte si moltiplicano gli appelli per convincere gli indecisi (in un senso o nell’altro). Perfino il sindaco di Londra, Boris Johnson, si è schierato a favore della Brexit.

Cosa accadrà? Altri paesi potrebbero seguire l’esempio di Londra e annunciare un referendum? Al momento si possono soltanto ipotizzare diversi scenari, visto che un simile evento non si è mai verificato in Europa.

Certo, se il 24 giugno la Gran Bretagna dovesse formalizzare l’abbandono dell’Unione Europea, la tenuta stessa della Comunità verrebbe messa a rischio, ma valutare gli effetti nel lungo periodo è praticamente impossibile.

Le banche lasceranno la City? La Toyota e la Nissan chiuderanno le fabbriche per trasferirle in un paese membro? L’UE imporrà dei dazi sulle merci britanniche? L’Euro e la Sterlina reggeranno?

Permettetemi però una piccola considerazione personale.

Ha senso gettare alle ortiche 50 anni di sforzi? Davvero gli europei non hanno imparato nulla dalla propria storia? È innegabile che l’Unione Europea abbia molti, troppi difetti. Negarlo sarebbe da sciocchi. Ma è altrettanto innegabile che questo “esperimento internazionale” unico al mondo, ha portato innumerevoli benefici ad ognuno di noi.

Ce ne ricorderemo?

Ai britannici l’ardua sentenza.

L’Europa è troppo grande per essere unita. Ma è troppo piccola per essere divisa. Il suo doppio destino è tutto qui” (Daniel Faucher).

Jacopo Vasta

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