Comprendere di non comprendere

Capita a volte di rimanere incollati. Incollati ad una sensazione, ad un momento temporale. Temporale non nel senso di fisicamente (più che altro concettualmente) distinto dallo spazio ma da una condizione di sospensione in cui l’unica attività effettivamente percepita è il riflettere attorno ad un’idea. Qualcosa che s’insinua. Una vocina piccola piccola che d’improvviso instaura un dialogo interiore fluente e torrenziale.

perspective2

A volte proficuo, a volte no. Capita a tutti, non negatelo. Semplicemente, alcuni tra di noi mettono a tacere quella vocina concentrandosi sul qui e ora. Che non è in assoluto una brutta cosa. Anzi. Direi risulta quasi necessaria considerata la nostra esistenza e la quantità di stimoli cui siamo costantemente sottoposti ed esposti

Sentire qualcuno parlare nelle nostre vicinanze, ha il grande potere di fornire stimoli al vagabolare e di svolgere il miglior esercizio che una mente semplice, che si pone domande semplici può fare: chiedere perché?

La discussione verteva su intelligenza, conoscere, comprendere.

Tre termini che dal mio interlocutore venivano usati abbastanza spesso come alternative.

Ora, io non sono un linguista, ne conosco di molto preparati e appassionati, per carità. Però quale che sia il mio campo di interesse del momento attuale, permango nella mia idea di chiedermi: perché?

Ad esempio, perché diamo così un grande valore all’intelligenza, concetto formale quanto generico? Perché non siamo più preoccupati dal conoscere? O dal comprendere?

Intelletto, intelligenza ha una derivazione relativamente semplice. Intelligere da inter- fra e legere lego legis lectum cioè raccogliere, cogliere, estrarre, togliere (se cercate in un buon dizionario di Latino troverete anche altri significati che vanno nello specifico o nel figurato).

Suadente. Raccogliere/scegliere/estrarre fra. Fra cosa? Fra tutto. Fra il campo d’indagine. Non già e non solo come spesso tradotto “leggere attraverso” ma saper discernere, distinguere. Che non è capire, che va oltre e che è già l’afferrare la cosa, prenderla. No, intelligenza è il momento prima: determinare cosa si e cosa no. L’intelletto quindi come strumento. Azione dell’intelligere, certo ma pur sempre strumentale.

Non so voi. Ma a me intelligenza, vista così, non dice nulla. Ma il mio collega era contento di usare “intelligenza” con così contentezza che non mi sentivo di non riversargli uno dei miei sorrisoni accondiscendenti. Del resto, così è se vi pare, scriveva Pirandello.

Epperò, nella stessa giornata, parlando poco più tardi di un altro argomento, mi capitò di sentirmi rispondere “lo conosco”. E la mia curiosità si accese di colpo. Parlavamo di Unabomber e di psicologia. E allora chiesi “E chi c’era dietro Unabomber e perché?”. “Era un folle che…” e la mia curiosità svanì. Peccato. Non ho interesse nel star qui a discutere del Dr. T. Kazcynski o degli studi del prof.re Murray o degli anni di Harvard in cui si svolsero o di tante altre cose. Il punto è questo, tante altre cose. Il ridurre al semplice. Che non è conoscere. E nemmeno comprendere.

Ma che vuol dire comprendere? Cosa si comprende? Si comprende una lezione? Si comprende un libro? Si comprende un dolore? Una sofferenza? Una canzone? Uno stato d’animo? Si può comprendere cosa? Si può comprendere cosa scrivo? Si comprende il significato di un messaggio scritto in un social network? Forse si, forse no. Chiedete ad un filologo! O al mio prof.re del Liceo di lingue e letterature classiche che di sicuro potrebbe farvi una lezione su ogni parola. Se me lo chiedete in privato, vi rivelo l’identità, prometto.

Se pensate a quando usiamo solitamente il termine comprensione, potremmo avere un significato molto forte. A me viene in mente un’attività del SISM, (segretariato italiano degli studenti di medicina di cui faccio parte ndr) in cui ci avevano chiesto di scegliere una parola con cui identificare il rapporto con l’altro.

A me, venne comprensione. Perché? Sempre per quel cum- che mi piace tanto e mi sa di compagnia, di squadra, di unione. Perché comprendere da cum- prendere e quindi prendere insieme, contenere, contenere in sé e figurativamente si allarga ad abbracciare colla mente le idee, afferrare coll’intelletto, cioè, intendere appieno. E qui vorrei lasciare ad ognuno o ognuna di voi di vagabolare senza di me. Perché già da qui, abbracciare colla mente le idee e afferrare coll’intelletto, sono due immagini così forti che ci si potrebbe scrivere sopra libri e libri.

E che vuol dire conoscere? Cosa si conosce? Si conosce il dolore? Si può conoscere la sofferenza? Si conosce il sentimento? Si conosce una poesia solo recitandola a memoria? Si conosce una malattia solo studiandone i sintomi? Si conosce una persona solo sentendola proferire qualche parola, durante una cena fortuita, in occasioni fortuite? Si conosce me stesso da quello che state leggendo?

Conoscere, dal mio punto di vista di studente di medicina col fascino per la lettura e la parola, ha un che di romantico e suggestivo. Cognosco. Da con cum particella di appoggio che indica un mezzo e uno strumento dell’azione e gnoscere, da tante radici ma per tradizione culturale personale, dal greco gnoeo o gnosko addirittura gnome o gnosis, gnorizo e ancora gnoos.

Ecco così che conosco è un labirinto fatto di strade che non vedo ma intuisco che son lì, davanti a me, dietro, lateralmente, sopra, sotto, trasversalmente e seguono ogni angolazione. E che se gnoeo, gnosko e gnome si riferiscono tutte alla mente e ai processi della mente, gnosis è notizia, gnotos è lat. Per noto e gnoos che trascina pure noos è l’intelletto. Ed ecco che conoscere si tinge di significati che si intrecciano tra loro tessendo un termine così meravigliosamente romantico da farmene innamorare.

Riprendo da Etimo: apprendere coll’intelletto a prima giunta l’essere, la ragione, il vero delle cose; avere idea, notizia di chiccessia, acquistata per mezzo dei sensi, dell’intelletto o della memoria.

Ecco così che conoscere una poesia non è solo riportarla alla memoria ma entrare nella poesia e nel poeta e nel sentimento e nel pensiero che ha ispirato quella poesia. Entrare in ciò che ha sentito e visto il poeta. Così è la malattia, che non è solo il sintomo e il segno ma il malato, e capire cosa ha generato la malattia e come il malato la percepisce, come il malato la vive, come il malato la sente. Perché se l’intelletto apprende a prima giunta, la prima giunta deve venire da qualcosa che sia il mondo fisico per come lo conosciamo. Non trascendente ma attuale. Così l’esercizio del cognoscere, diventa innamorarsi continuamente e volere sapere, non per il fatto di sapere, per la nozione, ma per la ricerca del sapere. Cognosco come sapere. Ed ecco che conoscere è una necessità dell’essere che conoscere l’essere e che esprime l’essere, essendo. Esplorazione di quel che è per come esso si rivela. Si esprime. Ed ecco che ancore esprimersi ha un suo grandissimo senso. Perché chi non può esprimere bene quello che sa, è quasi come non sapesse.

E sapere? “Che diamine vuol dire?” (citando il prof.re Onori di Anatomia con la sua buffa parlata)

Quello lo teniamo per la prossima volta che vagaboleremo assieme…

Comments are closed.