Egitto, un Paese sempre più fuori controllo

Dalla sicurezza negli aeroporti al caso Regeni, fino alla mai risolta questione del Sinai. Il Belgio del Nordafrica è l’Egitto, ex bastione mediorientale governato oggi da un leader molto meno abile del vecchio Mubarak. E che non riesce più a recuperare il suo vecchio peso specifico.

In questi giorni di forti tensioni internazionali, la notizia del dirottamento di un aereo egiziano ha suscitato una certa apprensione. Superata l’emergenza, un anonimo funzionario del Ministero degli Esteri egiziano si è sentito di poter rassicurare il mondo, sostenendo che il dirottatore non era un terrorista, ma solo “un idiota”. Sul momento, in effetti, la cosa ha sollevato un po’ tutti. Poi però, a pensarci bene, ci si è accorti che la questione rimane: come ha fatto un idiota non armato a far dirottare un aereo?

Il problema investe naturalmente l’intero settore dell’aeronautica civile, ma il fatto che l’episodio sia avvenuto su un aereo egiziano potrebbe non essere un caso. Al di là della deliberata follia dei singoli esseri umani, che non può essere prevista (non esiste ancora lo “stupid-detector”), certe foto circolate ieri fanno pensare che qualcosa nei controlli aeroportuali deve essere andato storto. Non sarebbe una novità, in Egitto. L’attentato del 31 ottobre scorso sul volo tra Sharm el Sheikh e San Pietroburgo fu reso possibile da una certa zona grigia tra gli addetti alla sicurezza aeroportuale egiziana. Falle incredibili, per un Paese al centro delle minacce terroristiche e tuttavia (a differenza del Belgio) ben abituato a fronteggiarle. Almeno dai tempi dell’uccisione di Sadat (correva l’anno 1981), ovvero da quando fu imposto lo stato d’emergenza nazionale, che rimase in vigore per i tre decenni successivi.

Il regime di Al Sisi, per legittimare il proprio golpe e giustificare le proprie repressioni politiche, ha portato avanti la solita narrazione della stabilità, oggi fin troppo di moda. “O me o il diluvio” sarebbe l’implicito mantra del presidente, e, grazie anche alle vicine catastrofi siriana e libica, l’appoggio dell’Occidente (ma anche quello della Russia di Putin) non è mai venuto meno.

Siamo stati troppo distratti dalle faccende di casa nostra per analizzare fino a fondo la fragilità del regime egiziano: abbiamo preferito di gran lunga affidarci alle parole di Al Sisi e persino alla bontà delle sue intenzioni. Del resto, sembra che nessuno nel 2016 voglia realmente mettere in discussione l’alternativa regimi – Isis (così comoda a tutti). Abbiamo quindi appoggiato volentieri il nuovo faraone, chiudendo gli occhi sulle sempre più visibili falle dei suoi apparati di sicurezza in cambio della caccia ai fantasmi islamisti.

Gli occhi, dal 2013 in avanti, sono rimasti chiusi. Permettendo, tra l’altro, cospicui e indisturbati contratti ai nostri investitori in loco. Poi, ad un tratto, l’imprevedibile. Il caso Regeni ci ha riportato bruscamente alla realtà, quella di un Paese oggetto di forti e diffuse violazioni dei diritti umani, con evidenti problemi di comunicazione tra i suoi servizi, e persino con una sorprendente incapacità diplomatica di tenersi stretti gli alleati che contano. Ha dovuto farne le spese un giovane e incolpevole dottorando, ma (forse) qualcosa nelle nostre percezioni sta finalmente cambiando.

L’Egitto, oggi, non è quello che ci racconta Al Sisi. Non è quel baluardo contro il terrorismo, efficace mediatore della crisi israelo-palestinese (anche lì ci si è arenati), pronto a spostare la propria capitale in mezzo al deserto e a intraprendere una strada di successo nel mondo arabo.

Non è nemmeno quello dei tempi di Mubarak, un regime duro e per molti versi arretrato, ma governato da una volpe che, oltre a saperne tenere il controllo, conduceva con una certa astuzia i rapporti internazionali.

L’Egitto, oggi, non è niente di tutto ciò. È un regime autoritario ma fragile, in preda a crescenti difficoltà politiche, militari, finanziarie e sociali. È un Paese che, se non riuscirà a giocare bene le proprie carte, dovrà fare i conti con un ingente ridimensionamento delle proprie ambizioni regionali. E, forse, con qualche alleato in meno.

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