Essere a pezzi.

Forget your perfect offering

There is a crack, a crack in everything

That’s how the light gets in.

That’s how the light gets in.

That’s how the light gets in.

Leonard Cohen, Anthem.

Oggi, dopo tanto tempo, mi capita di risentire una cara e vecchia amica. Vecchia perché siamo entrambi vecchi e non perché la nostra amicizia è vecchia. Quella no, sempre giovane rimane.

Oggi però aveva un tono strano. Un tono cupo. Basso. Sulle prime non riuscivo a capire cosa avesse. Così come quando mi capita spesso di non capire subito qualcosa con la mia sola intuizione, mi rivolgo a quel magnifico mezzo che è la parola. “Ehi, ti senti strana. Tutto bene?”. La sua risposta è stata vomitata. Come se stesse aspettando che qualcuno lo chiedesse. “sono a pezzi”. Mi racconta i suoi fattacci. Tanti fattacci. Molti fattacci. Brutti fattacci. Fattacci che sono stati, però; non fattacci che sono. E mi racconta di come malgrado siano stati, lei ancora avverte quel sentimento di pesantezza che la opprime e la disturba. Che le ricorda quel che è stato, facendole spesso perdere di vista quel che è. E di come, avvertendo questa cosa, si sente frustrata nel non riuscire a impedire che questi pensieri le occupino anche intere giornate.

Siamo distanti ma parliamo. “Sono a pezzi”. Le dico “fermiamoci un momento, facciamo un passo indietro e vediamo il muro che abbiamo davanti da un passo indietro, e se ancora vediamo lo stesso muro, facciamo dieci passi indietro, cinque a sinistra e altri tre indietro, chissà che non cambi qualcosa”.

E facciamolo assieme, del resto un po’ a tutti capita di “essere a pezzi” alla fine del giorno, della settimana, quando siamo stanchi e non ce la facciamo più.

Se una cosa è fatta a pezzi, vuol dire che è ridotta in parti o che consideriamo un parte solo di quel qualcosa. Un pezzo di pizza. Un pezzo di torta. Un pezzo di cielo. Un pezzo di cuore. Un pezzo. Ma un pezzo si presta a tante cose. Però se cambiamo qualcosa, “a pezzi” non ha delle tinte così colorate e leggere. Cade

re a pezzi. Essere a pezzi. Mi hanno fatto a pezzi. Terribile.

“Sono a pezzi!”. L’ho sempre sentita dire col significato di essere distrutti completamente. Di essere affranti, abbattuti, consumati. Però penso dipenda dal tipo di “figura” che costruiamo nella nostra mente. Perché del resto, a pezzi, facciamo anche la buccia per gustare uno squisito mandarino. E se non facessimo a pezzi la buccia, come sarebbe possibile mangiare il mandarino? Scoprire il mandarino. Io e il mio caro collega di studi lo facevamo quasi ogni giorno l’anno scorso. Rimuovere i pezzi di un calco, ci permette di far vivere la scultura che abbiamo creato. Se non rimuovessimo i pezzi con un martelletto, facendo attenzione a dove colpire, certo, non potremmo svelare la nostra creazione. O le uova. Pensate alle uova. Al guscio. Certo, il guscio protegge ma fino ad un certo punto della vita. Ad un certo punto, ciò che sta dentro il guscio deve venir fuori. Deve rompere il guscio in pezzi. E farli cadere. E venir fuori.

Quindi occorre prestare attenzione a quali sono i pezzi.

E poi mi viene in mente questa meravigliosa canzone di un poeta moderno: Leonard Cohen. Anthem. There is a crack, a crack in everything. That’s how the light gets in.

E penso che i pezzi si formano a partire da una crepa. E le crepe, quelle, ce le facciamo tutti i giorni. Alcuni di noi le evitano come la peste. Altri fanno finta di non averne. Altri mostrano con orgoglio quanto hanno fatto per nasconderle. E come si nascondo bene.

Ma se c’è una crepa, vuol dire che una crepa ci deve essere. Vuol dire che quello che sta sotto la crepa, è ora che venga fuori, magari. Perché se c’è una crepa, invece di vedere dei pezzi che cadono, proviamo a vederla come una muta. Cambiamo pelle. Cambiamo corazza. Cambiamo. Perché chi eravamo, non ce la fa più da essere contenuto. Così dobbiamo dare forma ad una nuova pelle. E i pezzi della pelle che ci togliamo e che cadono, i pezzi che cadono, sono dei pezzi che, fortuna che cadano!

Non solo. Una cosa che è fatta a pezzi, non necessariamente è associato a qualcosa di terribile. Prendete una pizza ad esempio. Riuscireste a mangiare una pizza intera? Ok. Si. Qualcuno di voi, si. Anche io del resto. Anche la mia ragazza. Ma ve la godreste mangiandola intera? Si, va bene. Cazzo si che me la godrei. Ok. Non ho preso il giusto esempio. La pizza la si gusta comunque la si mangi.

Va bene, non funziona. Il succo del discorso (toh guarda. Il succo si fa facendo a pezzi qualcosa. ) è che spesso, fare a pezzi qualcosa ci permette anche di guardare quei pezzi, studiarli, analizzarli, capire cosa va tolto e cosa magari va tenuto. Proprio come un’opera d’arte.

Qualcuno, se non sbaglio, affermava che la scultura si trovava già dentro la pietra. E che per avere la scultura, occorreva solo togliere i pezzi di marmo che non facevano la scultura.

Ecco che il David di quel Buonarroti è un magnifico esempio di ciò che può essere fatto, facendo cadere i pezzi. I giusti pezzi.

E comunque, ricordate, “Ricominciare”? http://utopiablog.it/ricominciare/

Vi rinfresco: “Ricominciare” sussurra la Creazione. “Ricominciare” grida la Vita. “Ricominciare” palpita il nostro cuore. Perché spesso si cade, ci si ferisce, si perde qualcosa ma ricominciare, quella è tutta un’altra storia: qualcosa dentro di noi si risveglia e noi la assecondiamo. Così, scopriamo di non essere mai stati forti come lo siamo stati in quel momento. Così, scopriamo di non aver mai voluto qualcosa, come l’abbiamo voluta in quel momento. […] 金繕い. Kintsukuroi, ovvero “riparare con l’oro”. Qualcosa di strano ma di contemporaneamente molto significativo, volendo vedere qualcosa dove magari non c’è. Una curiosa pratica di riparare il vasellame in pezzi, con oro liquido o lacca con polvere d’oro al fine di ricomporre e nel qual caso di migliorare non solo l’aspetto ma anche il valore dell’oggetto. Pratica, questa, che come la maggior parte delle tradizioni giapponesi, nasce da una grande introspezione delle cose classica della cultura cui sottende. Riparare, migliorando. Ricominciare, migliorandosi…migliorandoci.”

Cari vagabolandi, chiudo augurandovi solo una cosa, quali che siano i vostri pezzi, cadete in pezzi e ricostruitevi. Non una volta. Tempratevi. Poi ricadete in pezzi, togliendo ogni volta le impurità e i pezzi che non vi serviranno più. Aggiungendone di nuovi. Irrobustendo e modellando quelli che vi piacevano. Fatevi a pezzi ma non fatevi fare a pezzi!

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