Francia: La Republique est morte. Vive la Republique!

Analisi dei luoghi comuni di queste ore, dalla morte del sistema politico francese alla vittoria finale di Emmanuel Macron, data ormai per certa. Cosa significano i risultati di ieri e come evitare errori strategici contro Marine Le Pen.

Oggi la stampa internazionale sembra non avere dubbi sul prossimo inquilino dell’Eliseo. Forse per un riflesso condizionato, il fenomeno Le Pen viene ridimensionato dagli stessi commentatori che ne avevano preconizzato una terrificante ascesa. Eppure i sondaggi non erano mai stati così precisi nelle previsioni, negli ultimi anni. Le Pen ha preso tra un quarto e un quinto dei voti francesi, esattamente com’era stato già previsto. Di cosa ci si sorprende quindi oggi? Forse solo un dato è significativo: la bassissima percentuale ottenuta dal FN a Parigi (4%) e in generale le grandi città, ma – al di là della retorica sul post Bataclan – nemmeno questa è una sorpresa, e a voler essere pignoli non vuol dire purtroppo nulla. Nel novembre scorso, il consenso di Trump a Manhattan viaggiava su percentuali simili ma poi sappiamo com’è andata.

Ma andiamo con ordine. Proviamo a rispondere brevemente ad alcune domande ricorrenti sui risultati di ieri, per poi esprimere una valutazione più ampia su quel che può accadere nelle prossime settimane.

1) La Francia è spaccata in due? I risultati non sono stati così netti, e ce ne renderemo pienamente conto alle elezioni legislative (il prossimo mese). Macron e Le Pen prevalgono di pochissimi punti percentuali sugli altri due grossi candidati, Fillon e Mélenchon, che sfiorano il colpo. È falsa dunque la narrazione di una Francia spaccata in due, tra sovranisti/razzisti e liberali/europeisti. A voler per forza semplificare, si deve piuttosto dire che è una Francia spaccata in quattro, con una fetta (quella di Mélenchon) da interpretare bene (ci arriveremo dopo). È bene tenerlo in mente per il ballottaggio, quando tale falsa dicotomia sarà gonfiata ed esasperata.

2) La Quinta Repubblica è morta? Riprendiamo qui una domanda provocatoria avanzata da qualche giornalista nostrano. Nonostante il vento soffi forte verso l’abolizione dei vecchi riferimenti di destra e sinistra, una lettura “proporzionalista” dei risultati ci suggerisce di essere più prudenti. Da una parte è indubbio che la vecchia alternanza tra repubblicani e socialisti sia andata – almeno per il momento – in soffitta. Ad un’occhiata più attenta, tuttavia, il risultato di Fillon appare di tutto rispetto. Azzoppato dagli scandali, è riuscito a risalire nei sondaggi e a guadagnare un terzo posto non così scontato. In una Francia meno sconvolta dal fenomeno lepenista, avrebbe tranquillamente raggiunto i ballottaggi.

3) Mélenchon, una variabile impazzita? L’altro candidato che ha sfiorato il passaggio ai ballottaggi è Jean-Luc Mélenchon, ex PS passato da diversi anni alla sinistra radicale. Le reazioni giornalistiche più comuni alla sua avanzata si dividono tra l’incredulità e la forzata indifferenza. Mélenchon non è un alieno, né un outsider, né un volto nuovo della politica francese: proviene da decenni di militanza nella sinistra d’Oltralpe ed era forse il candidato con più esperienza politica tra quelli in lizza. Non basteranno poche righe a spiegare il suo risultato, qui ci limiteremo a commentare che: ha potuto approfittare della debolezza del PS e di Hamon (vedi punto 4) per attrarre consensi; con le sue critiche all’UE ha catalizzato parte del voto antisistema, sgonfiando indirettamente l’avanzata lepenista; si è fatto portatore di temi quasi inediti, nel deserto attuale della sinistra francese. Niente di inspiegabile, quindi. Sarà interessante valutare l’impatto che Mélenchon e i suoi avranno sul sistema politico francese, in seguito alle elezioni legislative.

4) Il Partito Socialista è finito? Appena cinque anni fa la sinistra europea sognava il cambiamento sull’onda dello slogan vincente di Hollande, “Le chargement c’est maintenant” (“Il cambiamento è adesso”). Di quello slogan resta un’eco beffarda, grazie all’inconsistenza del presidente più impopolare della storia di Francia. È soprattutto a lui (e al governo Valls) che si deve imputare il 6,5% di ieri. Il candidato Hamon, oltre al fardello dei cinque anni precedenti, ha dovuto scontare le defezioni del proprio partito (i suoi dirigenti si sono spostati in massa sullo scissionista Macron) e non da ultimo una scarsa combattività personale, almeno dopo la vittoria alle primarie, che a qualche socialista avrà ricordato la triste involuzione di Hollande. Gli elettori stavolta hanno preferito non rischiare.

5) E adesso? Partiamo naturalmente da Emmanuel Macron, già incoronato Napoleone (sic!) da opinionisti sicuramente molto profondi e accurati, nonché accorti, nelle loro similitudini. È sicuramente vero che il giovane leader di En Marche ha le maggiori probabilità – nonché la stoffa – per vincere il confronto con Marine Le Pen, e anche con un largo margine. Dalla sua ha il voto delle città, dei giovani, della parte più avanzata del Paese. Inoltre ha ricevuto l’endorsement pressoché immediato di Fillon e Hamon, che sulla carta potrebbero garantirgli una vittoria sicura (Le Pen è isolata).

Ma proprio questi appoggi potrebbero tradursi in una zavorra difficilmente gestibile. La loro tempestività, occorsa in un momento in cui i risultati non erano ancora nemmeno definitivi, può solo rafforzare ulteriormente l’immagine (già comunque ampiamente consolidata) di un sistema pronto ad autodifendersi e a far muro di fronte alle minacce esterne. Un bene, se si pensa al patto repubblicano contro i fascismi, ma un male, se l’outsider in questione, la Le Pen, viene vista da molti dei suoi elettori (e potenziali tali) come l’unica portatrice di istanze sommerse nella società francese, l’unico appiglio contro un sistema che soffoca i suoi cittadini. In questo senso, la quantità degli endorsement è indirettamente proporzionale alla loro efficacia. Si pensi solo all’effetto che possono avere le – purtroppo già arrivate – dichiarazioni di sostegno a Macron da parte di Hollande o della Merkel.

Tutto questo la Le Pen lo sa molto bene. E lo ha anticipato intelligentemente nel discorso che ha tenuto ieri sera, subito dopo la diffusione degli esiti del voto. La leader del Front National parte in svantaggio, ed ha poche armi a disposizione per ridurre il suo gap. Tra queste, la retorica. Se riuscirà a far passare il suo messaggio, o meglio a imporre la sua agenda, potrà ribaltare i pronostici. Al di là del nazionalismo, il vero punto forte del suo consenso risiede nel disagio sociale, e nella sua promessa di estirparlo con metodi “nuovi”. Promessa che potrebbe suonare più credibile del “vecchio” riformismo di Macron, di cui non si devono dimenticare l’appartenenza al governo di Valls e la vicinanza al mondo finanziario.

Insomma, Macron rischia di rappresentare un sistema che si riproduce con volti nuovi senza cambiare la sua natura. E la prova sarebbe data proprio dalla compattezza del fronte che lo sostiene. Un gioco perverso che nessuno ha pensato a spezzare. La lezione della Clinton (per quanto proveniente da un contesto enormemente differente, è sempre bene ricordarlo), in questo senso, non è stata imparata. L’unica eccezione, prevedibilmente contestata, è stata data da Mélenchon. Il leader della France Insoumise non si è affrettato a sostenere Macron, sia per l’estrema differenza con la sua proposta politica, sia per un ragionamento tattico volto alle prossime legislative, sia – sperabilmente – perché ha compreso che al di là del politically correct, un simile atteggiamento non avrebbe pagato (e non avrebbe giovato nemmeno allo stesso Macron).

Su Mélenchon, comunque, nei prossimi giorni graverà una responsabilità fondamentale: convertire – attraverso un endorsement pacato, dettato dalla logica ed espresso in tempi ragionevoli – la pericolosa frattura sistema/antisistema (i cui esiti potrebbero essere imprevedibili) in quella più confortevole, e conosciuta, tra fascismo e antifascismo, dando un reale valore al patto repubblicano di cui sopra. In due parole, dettare l’agenda, anche se da sconfitto, perché non è ovvio che Macron lo faccia nel modo giusto (ovvero senza arroccarsi in false sicurezze, spesso rivelatesi autolesioniste); mentre è ovvio che il leader della sinistra radicale non possa essere ragionevolmente accusato di appartenere al “sistema”.

Mélenchon dovrà svolgere questo compito con maggiore determinazione di quanta ne abbia avuta Bernie Sanders, trovatosi in un ruolo analogo qualche mese fa. Ha le carte in regola per farlo, perché la resistenza al fascismo è ancora un valore fondante in Francia. Se invece, per opportunismo, non dovesse agire, il rischio che prevalga un’altra agenda – compresa quella della sicurezza, questione ancora insoluta – rimarrà alto. Più alto di quanto i giornali di oggi facciano sembrare.

Comments are closed.