ISIS vs Tutti. Tra realtà e finzione.

Da oltre un anno, le cronache internazionali sono, per ovvie ragioni, focalizzate sulla “bestia nera” delle crisi internazionali: l’arcinoto califfato islamico, l’autoproclamato Stato, composto da gruppi estremisti che detengono il controllo di vaste aree di Siria ed Iraq. All’indomani della nascita di questo fantomatico “Stato”, le cancellerie mondiali sono prevedibilmente entrate in allarme.

La sorprendente velocità di conquista dei miliziani e la deludente risposta delle forze armate irachene (equipaggiate fino ai denti dagli Stati Uniti e considerate efficienti dagli esperti del Pentagono) ha rapidamente eroso la già precaria stabilità mediorientale. Prima che la comunità internazionale si rendesse effettivamente conto della gravità della situazione, le truppe del califfato si trovavano ormai a pochi chilometri da Baghdad.

Convinti di aver già sconfitto il debole esercito iracheno, i miliziani dell’Isis si sono quindi rivolti all’altro grande focolaio di crisi mediorientale, intervenendo a gamba tesa in una delle guerre civili più sanguinose degli ultimi decenni: la Siria. Le atrocità commesse dal Califfato e la minaccia di veder crollare il traballante equilibrio mediorientale hanno spinto alcuni Paesi a formare una sorta di “coalition of the willing”. Questa coalizione però, nasce con obiettivi confusi, mal definiti e senza una leadership capace coordinare gli sforzi militari dei players presenti nell’area.

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Fin dall’inizio delle operazioni infatti, appare chiaro che ogni paese intende non solo adottare una propria strategia ma anche (e soprattutto) ridisegnare il Medio Oriente secondo i propri interessi. Se il Presidente turco Erdogan non ha mai nascosto che il vero obiettivo di Ankara sia rovesciare il regime decennale di Bashar Assad, presidente siriano e uomo forte della regione, i sauditi hanno velocemente colto la palla al balzo, affiancandosi alla politica turca per bilanciare la crescente influenza sciita (leggi iraniana). Inoltre, non bisogna dimenticare il sostegno americano (e in minor misura europeo) ai non meglio definiti “ribelli siriani”, issati a paladini della democrazia contro il “cattivone” Assad. A questo punto però, una domanda sorge spontanea, perlomeno a coloro che negli anni hanno visto crollare i regimi di Saddam e Gheddafi sotto la spinta di ondate democratiche, più o meno pilotate.

Chi sta combattendo davvero l’ISIS?

In Siria solo la determinazione delle truppe di Bashar Assad ha consentito fino a qualche giorno fa di respingere i miliziani jihadisti dall’oasi di Palmira che ospita suggestive rovine romane nel deserto e un sito archeologico tra i più importanti del Medio Oriente. Da quasi due anni i Paesi occidentali strepitano ed esprimono “rabbia” per ogni reperto storico demolito dai jihadisti dello Stato Islamico, ma ciò nonostante nessuno aiuta le forze regolari siriane ad abbattere un attore spietato che decapita i nemici come fossero statue. Dove siano gli F-16 turchi, i Mirage francesi o i (disarmati) Tornado italiani, nessuno lo sa. Sia chiaro, nessuno potrebbe sostenere che il presidente siriano rappresenti la soluzione ideale per una Siria democratica o sviluppata. Tuttavia è innegabile che senza le tanto vituperate forze armate siriane (le uniche che ad oggi combattono direttamente i miliziani islamici sul campo), il Califfato avrebbe già occupato Damasco, messo in scacco Libano, Israele e puntato alla Giordania.

Nonostante l’enorme spiegamento di mezzi – occidentali e non – le forze aeree di Assad bombardano l’Isis ben più di quanto non lo faccia la coalizione. È curioso tuttavia, che secondo i dati forniti dalla cosiddetta “opposizione libera siriana” i jet del regime uccidano solo civili inermi, mentre i moderni cacciabombardieri della coalizione riescano a colpire i membri del Califfato senza alcun effetto collaterale tra la popolazione. Perfino l’Iran, in passato additato come sostenitore dell’”asse del male”, è intervenuto direttamente nella mischia, sostenendo Iraq e Siria con uomini e mezzi nella speranza di bilanciare l’enorme vantaggio del Califfato. Ciò che stupisce però è il totale silenzio dell’Occidente. Non degli Stati Uniti, sempre in prima linea nel tentativo di esportare la democrazia dopo i brillanti successi in Iraq e Libia, bensì del Continente europeo.

Ma cosa pretendere da un’Europa che non riesce nemmeno a risolvere le crisi interne? L’idea di una linea unica da parte dei 28 è pura fantascienza. Tuttavia, in questo caso si parla della sicurezza diretta di un Continente che fa della stabilità dei suoi vicini uno dei principali pilastri della propria politica estera. È possibile che in nessuna cancelleria europea ci si renda conto che l’unico modo per ricacciare indietro i miliziani dell’Isis è appoggiare Assad? Perfino Israele, ufficiosamente, ha fatto trapelare la propria opinione, decisamente favorevole all’attuale presidente siriano. Gli israeliani preferiscono un singolo cane che abbaia senza mordere ad un branco di cani randagi senza padrone, pronti a colpire mortalmente lo Stato ebraico.

L’avanzata delle milizie dello Stato Islamico in Iraq e Siria rappresenta la migliore conferma della finta guerra che arabi e occidentali stanno conducendo contro il Califfato. Qualche giorno fa gli Stati Uniti hanno iniziato ad addestrare ben 4 mila “ribelli siriani” accuratamente selezionati da turchi, sauditi e qatarini, cioè gli sponsor dello Stato Islamico, oggi sostenitori della nuova alleanza islamista che a fine marzo prese il controllo di Idlib, nel nord della Siria. La nascita di questo gruppo sembra voler dimostrare, ancora una volta, che sauditi e turchi abbiano trovato un’intesa per abbattere il regime siriano.

E pensare che secondo l’attuale equilibrio di forze, Turchia e Arabia Saudita rappresentino i principali alleati dell’Occidente nella stabilità dello scacchiere mediorientale… A questo punto quindi, è lecito porsi una domanda: come si può combattere il Califfo indebolendo l’esercito siriano, l’unico avversario insieme ai curdi capace di tenere testa agli uomini di al-Baghdadi?

A Washington, gli esperti militari sostengono che questa sia l’unica vera soluzione per sconfiggere definitivamente l’Isis. A questo punto, speriamo solo che non si tratti degli stessi esperti che nel 2011 avallarono l’intervento militare in Libia.

Jacopo Vasta

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