Jeremy Corbyn, anatomia di un perdente

 

Da quando ha vinto le primarie del suo partito (il Labour britannico, per i più distratti), Jeremy Corbyn è riuscito a catalizzare su di sé tutte le attenzioni, più o meno sgradite, della politica e dei media globali.

L’Italia non ha fatto eccezione. Qui, come da tradizione, di fronte agli eventi politici internazionali si tende a generalizzare e a trarre lezioni per il nostro Paese e non solo. Politologi da tastiera, purtroppo a volte muniti di tesserino da giornalista, si lanciano così in ardite analisi sul vincente/perdente di turno.

I risultati di qualsiasi elezione hanno quindi sempre cause spiegabilissime (anche se, stranamente, nessuno aveva saputo prevederli), si incastrano perfettamente negli schemi correnti e sono forieri di conseguenze future già scritte.

La complessità del reale non è contemplata nemmeno per sbaglio.

Ha vinto Corbyn? Certo, colpa di un Labour che si è buttato la zappa sui piedi (solo questo?), sintomo di un desiderio di ritorno al passato (solo questo?) e causa certa di future sconfitte (per Natale voglio regalata anch’io una palla di vetro).

Così, si può discettare del futuro allo stesso modo in cui si sproloquia del presente, tanto sembra che nessuno ne dovrà mai rendere conto a chicchessia.

Quasi tutti gli editoriali sono concordi su un sillogismo: le idee di Corbyn appartengono al passato, quindi sono perdenti, quindi lo trascineranno nella sconfitta più cocente della storia del Labour. La naturalezza con cui vengono lanciate queste consequenzialità è stupefacente, ma lo è di più la salda cognizione degli eventi futuri. Signori, buttate via la vostra laurea in scienze politiche, se ne avete una: da oggi le discipline sociali divengono una scienza esatta. Naturalmente le formule di questa nuova geometria sono custodite in via Solferino e in tutte le redazioni dei più autorevoli editorialisti. I comuni mortali non possono far altro che ammirarle e costatarne l’efficacia.

Battute a parte, la sicurezza con cui vengono sciorinate certe previsioni non può essere figlia del caso, né delle simpatie di qualche singolo giornalista. Deve significare qualcosa di più. Evidentemente, per motivi che sfuggono alla nostra comprensione, Corbyn rappresenta tutto ciò che vi è di perdente nella società (ovvero in questa meravigliosa società della competizione, dove i pareggi non sono ammessi).

Solo entrando in quest’ottica possiamo capire l’ironia con vengono sbeffeggiati gli abiti da mercatino di Corbyn, la sua anzianità o la sua mancata appartenenza ai circuiti che contano. Venghino allora i signori editorialisti, e ci spieghino cortesemente l’esatta alchimia della vittoria. Un volto sorridente e giovanile? Un curriculum farcito di master? Una carriera in perenne ascensione? O l’adozione di misure compatibili con gli interessi di chi tiene in mano il sistema? Forse quest’ultimo requisito può bastare a compensare eventuali carenze in tutto il resto.

L’idea maestra è che il radicalismo non paga: i risultati elettorali arrivano strizzando l’occhio al famigerato elettorato moderato (bestia più immaginaria che reale) e soprattutto alla finanza che ormai tutto permea e benedice. Personaggi come Tsipras, (e, se mai andrà avanti, Corbyn), sono solo incidenti di percorso, ostacoli temporanei allo scontato trionfo politico del liberismo.

Qualche analista si spinge oltre. L’equazione democrazia = capitalismo è il pretesto ottimale per accostamenti improbabili, esplicitati o anche solo ventilati (Corbyn amico di Hamas, Hezbollah e Putin, secondo il sottile Polito; simile a Trump e Le Pen per Riotta), adatti a creare paure mitologiche verso coalizioni del Male di fatto inesistenti. Qualsiasi rottura di schemi diventa un pericolo per tutti, non solo per gli schemi. Come se la stabilità delle classi dirigenti al potere fosse realmente correlata a quella delle istituzioni o dei cittadini che le sostengono. Una trappola cognitiva da cui è difficile uscire. Molto più difficile di quanto possa sembrare.

Ma torniamo a Corbyn. Nell’isteria collettiva delle cassandre di destra e di sinistra, pochi si sono chiesti il motivo del suo successo. E ancora meno persone si sono interrogate sulle opportunità derivanti da questa leadership. Se per un attimo distinguiamo le opportunità dalle chance (di vittoria), ci rendiamo forse conto che la discussione può andare su binari diversi e più interessanti. Se ci offrirà ricette alternative, o anche solo visioni più aperte per comprendere un mondo ormai illeggibile con le solite vecchie lenti, allora la leadership di Corbyn rappresenterà un’opportunità senza precedenti. Tutto questo, naturalmente, a prescindere dai risultati immediati delle urne, per i quali tra l’altro si dovrà attendere ancora un bel po’.

Ma ai nostri editorialisti questi dettagli non importano. Sono troppo impegnati a trovare analogie tra Corbyn e Grillo, Le Pen, Salvini, Tsipras, Chavez, Al Baghdadi, Kim Jong-Un. Dando per scontato (o fingendo) che esista un minimo comune denominatore reale tra soggetti e storie diversissime.

A pensarci bene è incredibile: mai un perdente ha ricevuto tutte queste attenzioni. Non che sia ancora chiaro, peraltro, come un perdente abbia potuto (stra)vincere delle elezioni primarie. Né tanto meno come possa diventare un pericolo per la sicurezza nazionale, per l’economia e per le famiglie britanniche (giusto per parafrasare un sobrio David Cameron).

In attesa di capire tutto ciò, ci ritagliamo un piccolo spazio in platea. Qualcosa ci dice che il copione non verrà del tutto rispettato.

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