La democrazia passerà di moda

de-gregorio-berlusconiIeri Silvio Berlusconi e Valter Lavitola sono stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione per la corruzione del senatore Sergio De Gregorio (attraverso tre milioni di euro), volta a far cadere il governo Prodi nel 2008. Come osserva La Stampa, è la prima volta nella storia repubblicana che un leader politico viene riconosciuto colpevole di aver comprato un senatore per far cadere il governo avversario. Tra l’altro, la sentenza ha condannato anche Forza Italia, che dovrà risarcire il Senato in sede civile. Comunque la sentenza andrà in prescrizione il 6 novembre, ben prima che si possa arrivare a un verdetto definitivo.

In un altro momento, la notizia della condanna avrebbe fatto il giro del mondo e occupato per giorni il centro delle cronache nostrane. Ma stavolta non succederà.

La colpa non è solo del tanto tempo passato dai fatti contestati (7 anni), né della prescrizione incombente. Non è delle gravi crisi internazionali che stanno monopolizzando l’attenzione dei media. E non è nemmeno dell’irrilevanza politica che ormai circonda l’ex cavaliere.

La vera ragione è un’altra. La notizia non ci scandalizza più di tanto. Un po’ perché si sospettava già da un pezzo, un po’ perché la questione non ci sembra poi così grave rispetto a ciò che vediamo quotidianamente. In effetti, i casi di corruzione politica compaiono ormai all’ordine del giorno e l’inerzia con cui vengono accolti è giustificata proprio dalla loro frequenza. Ma qui entra in gioco qualcosa di molto più importante. Con particolare sprezzo per la democrazia, sono state calpestate la legittimità delle istituzioni e il rispetto della volontà popolare. Ed è stato fatto in un modo così plateale (anche se goffo, in fin dei conti), da non poter lasciare indifferenti.

Ma siamo in Italia. Nell’Italia del post-berlusconismo, dove l’animosità del fu popolo viola pare essersi smorzata. O almeno, si è diretta verso altri bersagli. Se cinque anni fa ogni energia politica veniva assorbita dallo scontro titanico tra il berlusconismo e l’antiberlusconismo, oggi non è più così. Il nuovo bipolarismo si disputa tra casta e anticasta, tra il centro e la periferia di un sistema che ha sposato l’autoconservazione per perpetuarsi.

Auto-confinatosi in una sottile terra di nessuno, Berlusconi non è più il nemico. Né per il governo, né per l’opposizione (l’opinione pubblica, incapace di un’elaborazione indipendente, segue a ruota). E quindi, nel Paese in cui le vicende giudiziarie servono solo a cavalcare le strumentalizzazioni politiche, da una parte e dall’altra, la sentenza rimarrà ai margini del dibattito politico.

C’è di più. Agli occhi di un’opinione pubblica sempre più trasversale, il vero schiaffo alla sovranità non è avvenuto nel 2008, ma nel 2011. Con la caduta dello stesso Berlusconi, fomentata da attori esterni ostili al suo governo, in un corto circuito di interessi e dinamiche ancora poco chiarite. E su cui, naturalmente, bisognerà far luce.

Ma ad oggi, gli unici fatti appurati dalla magistratura sono questi. Nel 2008 un senatore fu corrotto per far cadere un governo legittimamente eletto. Il resto, almeno per ora, è fiato alla bocca.

Naturalmente, c’è chi pesca nel torbido. I giornali più vicini a Berlusconi oggi si sprecano in considerazioni improprie, pur di non affrontare la realtà. Alcuni sostengono che sia stato introdotto il reato di trasformismo, altri fanno presente la formazione poco trasparente degli ultimi governi, altri ancora insistono sulla teoria della magistratura politicizzata. Gli stratagemmi per confondere le acque sono i soliti, ma funzionano discretamente nel Paese del “benaltrismo”. Sia ben chiaro, alcune delle questioni sollevate sono reali: i cambi di casacca in parlamento sono eccessivi e spesso superficiali, e la scelta degli ultimi presidenti del consiglio non sembra aver rappresentato al meglio la volontà popolare (per dirla con un eufemismo). Tuttavia i problemi derivanti dal (non) vincolo di mandato elettorale non possono reggere il confronto con l’illegalità della corruzione, o tanto meno dell’eversione.

Se la stampa volesse fare qualcosa di utile, dovrebbe sollevare un dibattito sullo stato di salute del nostro sistema democratico, e sui rischi a cui va incontro. Chiaramente non se ne farà nulla, perché in fondo agli italiani non importa molto. La democrazia è un ottimo scudo ideologico per le proprie argomentazioni politiche, ma al di fuori dei frequenti usi strumentali non sembra ricevere un reale interesse, né una fondata fiducia.

Lo dimostra la crescente simpatia per modelli autoritari, partitici o statali. Il leaderismo con cui si caratterizzano alcune delle nostre forze politiche può pure essere formalmente democratico, almeno nella sua retorica (si veda il M5S o il Pd renziano), ma nei fatti non è poi così dissimile da quello espresso da partiti che non nascondono le proprie simpatie per gli autoritarismi (Forza Italia e Lega). Il riconoscimento di buona parte degli italiani in questi quattro modelli la dice lunga sullo sviluppo della cultura democratica nel nostro Paese. E l’orientamento dell’opinione pubblica sui temi internazionali (dal tifo per Assad alla nostalgia per Gheddafi, passando per l’esagerata celebrazione di Putin) è un’ulteriore riprova di questa tendenza allo svilimento del pluralismo.

Non occorre esagerare con gli allarmismi. Non siamo ancora a “rischio dittatura”, come ci urlano certi falsi profeti. Le istituzioni repubblicane si manterranno, così come le libertà politiche e i diritti fondamentali. Ciò che rischia di perdersi, invece, è il senso della collettività e il rispetto delle regole (se non è già successo). Senza di esse, la democrazia smarrisce il suo senso, e quindi, la sua attrazione. Con tutti i pericoli che ne conseguono.

Comments are closed.