La differenza tra un contabile e uno statista

In questi giorni, a proposito dei negoziati sul debito pubblico ellenico, si è spesso parlato di completa vittoria tedesca. Senza nulla togliere alla “raffinata” vendetta della Merkel e di Schäuble nei confronti di Tsipras all’Eurogruppo, l’utilizzo di questa locuzione sembra un po’ affrettato (oltre che irrispettoso verso chi ne pagherà lo scotto).

Il risultato ottenuto dalla Germania è provvisorio ed è contestato un po’ dappertutto. Da Piazza Syntagma alla Lagarde, dai Verdi tedeschi agli Stati Uniti, e perfino a Renzi. Quasi tutti hanno riconosciuto che Berlino ha esagerato, e che continuare su questa strada non porterà a nulla di buono, né sul piano politico né su quello prettamente finanziario. E’ vero, Obama fa pressioni per evitare un’Europa più debole e soprattutto una penetrazione russa nel Mediterraneo. Ma il FMI? E’ improvvisamente diventato il Fondo Marxista Internazionale? Difficile crederlo. Forse, nel realismo dei suoi pur cinici commissari, c’è più lungimiranza che in Schäuble e company.

Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble e la cancelliera Angela Merkel

Il piano della Merkel non prevede vie di fuga. Impedendo la ristrutturazione del debito, costringe la Grecia a una spirale recessiva senza fine per ripagare quanto dovuto. Ovvero per non farlo, visto che la recessione è il sistema perfetto per dilatare i debiti e renderli socialmente più costosi. Se la soluzione alternativa, come oggi sostiene Schäuble, fosse davvero la Grexit, che senso avrebbe avuto l’accanimento terapeutico di questi anni? Sarebbe stato non solo inutile e dannoso, ma beffardo. E ci auguriamo che un’idea del genere sia frutto della contingenza e non di un disegno consapevole e studiato a tavolino. Non parliamo poi dell’insistenza, da parte dei vertici tedeschi, nella campagna a favore del Sì nell’ultimo referendum greco. Un’insistenza vicina all’ingerenza, possiamo anche dirlo. Una volta poi raggiunto un accordo ancora più favorevole ai creditori, la loro ostinata insoddisfazione crea più di qualche sospetto.

Una strategia così contorta, a prima vista, potrebbe anche essere una non-strategia. Ma forse è meglio evitare di cedere all’idea ben descritta da John Hulsman¹, ovvero la tentazione di bollare come inesistente ogni piano che non capiamo o che non condividiamo (un facile esempio? la strategia di Obama in Medio Oriente).

Cosa vogliono allora i tedeschi? Certamente non lo sappiamo, ma possiamo fare alcune ipotesi. Partendo proprio da ciò che non vogliono.

No, non vogliono un Quarto Reich, come accusano in molti. I parallelismi storici cessano di essere utili dal momento in cui vengono creati per fini strumentali (specie se denigratori) anziché esplicativi. In questo caso, il paragone col nazismo serve a poco o a nulla (se non a mettere in difficoltà il fronte di chi lo formula). Chi vuole creare il mito antropologico del tedesco dominatore, dovrebbe fare i conti con oltre mezzo secolo di storia, da Adenauer a Schröder, in cui la politica estera tedesca è stata riformulata su basi ideologiche opposte rispetto a quelle utilizzate nel passato.

Nemmeno fare un deserto e chiamarlo pace, per parafrasare Tacito, può essere un reale intento dei tedeschi. In un mondo interdipendente come quello odierno, nessuno può avere un vero interesse nel default di un partner. Chi li pagherebbe poi i debiti? Al massimo, i creditori possono sperare che i tassi di interesse rimangano alti, al fine di realizzare il massimo profitto possibile. Dati gli enormi interessi in gioco, il dubbio che negli ultimi cinque anni sia stata utilizzata questa tattica è più che legittimo. Ma è un sistema rischioso che non può essere usato per sempre, né è in linea teorica preferibile a una situazione di stabilità economica.

C’è dell’altro quindi, dietro la rigidità germanica. L’applicazione estrema dell’austerità, il mercantilismo più sfrenato, un senso di superiorità sopito? Forse, più semplicemente, un orizzonte di medio termine che vede nell’esecuzione delle ricette tedesche l’unica salvezza europea contro l’impazzare di spesa pubblica, indebitamenti e inflazione. Un modello “virtuoso” da preservare a qualsiasi prezzo. Anche a costo della moneta unica (sacrificabile in favore di un euro del nord, almeno secondo un progetto informale già in circolazione nel 2012). Un piano ideologico, ma fino a un certo punto, perché la sua (pre)visione si limita agli eventi più immediati. Non tiene conto, ad esempio, degli effetti politici nei Paesi interessati.

Cosa succederebbe se l’interlocutore ellenico cessasse di essere Syriza e diventasse, ad esempio, Alba Dorata? Sarebbe più malleabile? Più ragionevole? E davvero, avremo tutta questa voglia di interloquirci? Oppure daremo ancora una volta la colpa ai greci e al loro voto? Già immagino il J’accuse dei quotidiani europei: “La democrazia greca ha fallito”. Ma prima di essa, avrebbero fallito tutte le alternative democratiche convenzionali (centrosinistra, centrodestra, sinistra radicale) pazientemente sperimentate dai greci. Davvero riusciremo a puntare il dito verso di loro prima che verso noi stessi?

Se tutto ciò dovesse avvenire, non potremo esimerci da una profonda autocritica. La linea tedesca avrebbe perso, qualunque siano i risultati finanziari: non si potrebbe più ignorare il dato politico. A quel punto però, ai ragionieri tedeschi si potrebbe commissionare la conta dei danni, potenzialmente ben più ingenti rispetto alla ristrutturazione di un debito pubblico. Sai che divertimento.

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Willy Brandt ed Helmut Kohl, due leader tedeschi d’altri tempi

In attesa che ciò (non, si spera) accada, non ci resta che aspettare. Prima o poi dovrà pure farsi avanti, nella nuova generazione politica europea, qualcuno dalla caratura diversa. Non un banale ragioniere, né un semplice leader: di questi ne abbiamo abbastanza. Ma uno statista. Ovvero qualcuno che sappia alzare lo sguardo dal proprio estratto conto o dai sondaggi del proprio partito, e che preferisca salvaguardare le successive generazioni anziché le successive legislature. Qualcuno che faccia impallidire chi ha avuto il coraggio di definire François Hollande o Martin Schulz gli enfant prodige della nuova Europa (salvo poi ravvedersi in questi ultimi tempi). Qualcuno in grado di ricreare la necessaria fiducia e solidarietà tra i partner europei, prima che i nazionalismi prendano definitivamente il sopravvento.

Manca insomma l’acume di un Helmut Kohl, o la generosità di un Willy Brandt, tanto per rimanere in terra teutonica. Manca un’Ostpolitik in salsa europea. Un’eredità dispersa da allievi di una generazione (e di una visione) inferiore.

Pietro Figuera

 

¹ John C. Hulsman, Obama, l’Iran e la fatica di Sisifo, Limes 5/2015.

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