L’Europa, la sicurezza, la retorica

Forte con i deboli, debole con i forti. Un’Europa attenta ad erigere muri verso chi scappa dalle atrocità, ma poi incapace di difendersi dal proprio nemico interno, di bloccare quei foreign fighters ormai fin troppo liberi di fare avanti e indietro dalla Siria al Vecchio Continente. Un’Europa disposta a corrompere il più ambiguo dei suoi vicini, pur di tenere lontano da sé il prodotto della propria miopia e debolezza politica, ma poi distratta nella caccia al suo peggior carnefice, e ingenuamente esposta ai cani sciolti che alimentano il terrore a pochi metri dai suoi centri decisionali.

È il fallimento dell’intelligence europea, burocrazia mai nata a cui si è preferito anteporre un’unione economica dai dubbi risultati. Eppure, in questi tempi micidiali, tutti i segnali avvertivano che si doveva invertire la tendenza, che ci voleva una maggior coordinazione tra i servizi. Il risultato? Non è stato ancora adottato nemmeno il PNR, il registro comune dei passeggeri aerei, come denuncia il premier francese Valls (facile però dirlo adesso).

La sicurezza è rimasta uno slogan, tirato fuori nei momenti critici per tranquillizzarci: “State calmi, qualcuno sta facendo qualcosa”. Poi però (con tutto il rispetto per chi compie il proprio dovere per difenderci) sembra tutto inutile, qualche falla si trova sempre. Per carità, è certamente difficile contrastare una rete di terroristi che può colpire ovunque ci sia gente indifesa, cioè dappertutto. Questo non lo mette in dubbio nessuno. Ma se poi non riusciamo a controllare nemmeno i punti nevralgici più sensibili, universalmente riconosciuti come obiettivi primari per il terrorismo, allora vuol dire che abbiamo fallito su tutta la linea. “Abbiamo” e non “hanno”, perché non possiamo nasconderci dietro le (seppur gravissime) inefficienze della polizia belga, ma riconoscere che l’impreparazione è diffusa. Ed è quasi strano che i terroristi non ne abbiano ancora approfittato fino in fondo.

La retorica propone poche varianti al dramma europeo. Modificato il tricolore da proiettare sui monumenti, è (e sarà) tutto un rincorrersi di dichiarazioni straordinariamente ripetitive. Qualche esempio?

Alzate le misure di sicurezza”. Per caso rassicura qualcuno? Da mesi sono già ai livelli massimi, le riunioni d’emergenza dei servizi appaiono più delle misure placebo che altro (lo “state calmi eccetera” di cui sopra). “Non vinceranno”. Strano, eppure sembra che stiano vincendo: militarmente, politicamente e psicologicamente. Non sarebbe ora di rivedere la strategia? “Stavolta hanno toccato il fondo, il cuore dell’Europa”. Se per cuore dell’Europa intendiamo la vicinanza geografica della Commissione europea, sono d’accordo. Ma il fondo no, è stato già toccato. Parigi è europea quanto Bruxelles, e comunque non vedo perché la questione dovrebbe toccarci solo quando il terrore varca i sacri confini comunitari. In Turchia, per fare solo un esempio, non è stato toccato il fondo in questi mesi? Cosa è cambiato stavolta? Purtroppo nulla. Le autorità e i media cercano di far leva sull’eccezionalità dell’evento per generare un’indignazione più vasta e unita, ma in fondo sanno che il male è banalmente ripetitivo e punta sulla nostra rassegnazione.

Per amor di pace taccio delle altre esternazioni, provenienti da pance che non aspettavano altra occasione per esprimere i propri umori. Inqualificabili, perché non si può essere un giorno tutti #generazioneErasmus e il giorno dopo #fuorigliimmigrati. Chi ragiona così non ha capito nulla del senso dell’integrazione europea. Del motivo per cui fa così paura ai terroristi (sì, ogni modello di convivenza è odiato da chi semina odio). Chiudere i confini non servirà a nulla, ed è triste doverlo ripetere ancora. La risposta al nostro dramma va cercata dentro l’Europa, non fuori.

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