Potere (e limiti) delle immagini

Una reazione inaspettata, almeno in apparenza. Le immagini drammatiche di questi giorni sembrano aver scosso l’inerzia mentale e la pigrizia emotiva ormai prevalenti nella nostra “società avanzata”. Può sembrare strano, dato che tali immagini non fanno altro che ricalcare certe esaltazioni della violenza e della morte ormai non più così rare da trovare nella mischia dei social network. Ma in effetti, a pensarci bene, non lo è poi così tanto.

bodrum

Siamo così abituati a dar fiato alle nostre bocche, o peggio ancora a pigiare freddamente i pulsanti delle nostre tastiere, protetti dalla più completa impunità, senza una società che ci giudichi o un giudice che ci condanni, da essere assuefatti a questa pratica e alle sue peggiori distorsioni. Partorire mostri non è poi così difficile, se si è seduti sulla propria scrivania e ci si sente lontani dal mondo. E’ solo quando il mondo si avvicina a noi, che iniziamo ad avere paura. Non ce ne rendiamo pienamente conto, ma il bambino trovato senza vita nella spiaggia turca è lo stesso a cui abbiamo augurato ogni male, pur di non farlo arrivare (vivo) sulle nostre coste. La reporter ungherese, invece, ha semplicemente messo in pratica ciò che quotidianamente milioni di utenti esortano a fare: del male fisico a delle persone inermi. Sembrano delle banalità, e infatti lo sono. Ma banale è il male, ormai per definizione, e banali sono i ragionamenti che lo producono. L’era digitale, con i suoi pregi e i suoi paradossi, porta certi meccanismi alle estreme conseguenze. Siamo schiavi delle nostre percezioni: la distanza fisica e sensoriale dagli eventi ci rende inconsapevoli della loro portata, estranei alla loro vera comprensione, e in(c)erti nei nostri riflessi.

Le immagini, naturalmente, interrompono il circolo vizioso dell’accettazione passiva. O quantomeno, risvegliano in tutti o quasi un principio di reazione, un senso di ingiustizia, di rabbia repressa. L’effetto, purtroppo, continua ad essere visibile solo nella comunità virtuale (non credo che qualcuno si sia realmente alzato dalla propria sedia per fare qualcosa), ma forse è riuscito a far cambiare idea a qualcuno, o almeno a farlo riflettere.

Le domande, a questo punto, sorgono con spontaneità immediata. Petra-Laszlo

Cosa è cambiato rispetto a prima? Un morto, se fotografato, ha più dignità degli altri? E’ più reale? Il suo decesso è stato più orrendo? Perché prima non eravamo sdegnati? Non sapevamo? O sapevamo, ma non ci credevamo? O sapevamo e ci credevamo, ma semplicemente non volevamo pensarci?

E ancora: cos’è che non va col comportamento della reporter ungherese? E’ stata troppo poco violenta? Voi che oggi le date della poco di buono, non eravate gli stessi che inneggiavano alle torture, alla pulizia etnica, alle camere a gas, o anche “solo” all’annegamento di queste stesse persone? Cosa volete che sia, uno sgambettino? Un piccolo assaggio dell’odio smisurato che gli farete assaggiare in Europa. Ma forse il problema è un altro: l’uomo sgambettato aveva un bambino sulle spalle, che nella caduta ha rischiato di farsi davvero male. E’ stato lui a farvi pietà? Se l’uomo, anziché il bambino, si fosse portato sulle spalle soltanto un carico di esperienze drammatiche, sarebbe stato più normale dargli un calcio? Più umano?

Si dirà, non tutti la pensavano così, e chi la pensava così magari lo pensa ancora. In effetti non ho le prove che “Tizio Caio” abbia esaltato la violenza sui migranti prima di insultare la reporter, che in fondo stava solo facendo il suo dovere di razzista (battute a parte, la donna in questione sembrerebbe essersi davvero stupita delle reazioni negative nei suoi confronti… siamo arrivati a questo, sì).

Ma un cambiamento di tendenza (temporaneo, non illudiamoci) è stato realmente visibile. Qualcuno deve essersi davvero fatto interprete di questa doppia morale, probabilmente in modo inconsapevole. C’è da esserne contenti? A questa domanda non so proprio rispondere.

Una sola cosa è certa: le immagini (sia le foto che le riprese) ci smuovono, ci avvicinano agli eventi e alle sensazioni di chi li vive. Una cosa buona, si intende, anche se chiaramente non c’è nulla di nuovo in tutto ciò. Vi è però un’altra faccia della medaglia, un po’ meno discussa e troppo poco temuta: l’assuefazione.

Abbiamo bisogno sempre di qualcosa in più per indignarci. Altrimenti la nostra reazione sembrerebbe ingiustificata (e poi non possiamo mica indignarci ogni giorno per tutto, no?). Aspettiamo quindi la prossima tragedia, il prossimo gesto vigliacco, per dire la nostra. Ma deve essere più infame dei precedenti, altrimenti non vale la pena parlarne. Non è solo questione di apparenza sociale, nel profondo la pensiamo davvero così. Sembrerebbe ridicolo, se non fosse tragico. Ma è specifico della condizione umana.

Le immagini, in questo, non possono farci nulla. Anzi, potrebbero forse peggiorare il nostro tasso bulimico. Non oso immaginarne le conseguenze. L’uomo per natura tende ad abituarsi a tutto: alle condizioni più vergognose, ai crimini più efferati, alla violazione di ogni diritto. Ne è la prova la non-resistenza di milioni di persone, forse miliardi, a regimi oppressivi, alla fame più nera, ma anche alle imposizioni sociali, agli effetti delle droghe o alla violenza di genere. La storia dell’uomo è ricolma di passività verso se stesso e ciò che lo circonda. E non esiste nemmeno un limite quantitativo all’assuefazione umana, così come non c’è bisogno di essere “cattivi” per assuefarsi. Basta leggere Primo Levi, tra gli altri, per capirlo.

Siamo ancora ben lontani da certi estremi, e forse non ci si arriverà più. Ma la strada, tortuosa, per adesso va in quella direzione. E’ inutile negarlo. L’unico rimedio è la coscienza, collettiva e individuale. E il far sì che certi drammi non diventino abitudine, né mentale, né reale.

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