Referendum del 17 aprile: un po’ di chiarezza sulla convenienza economica delle trivellazioni

Il dibattito sul referendum del 17 aprile è entrato nel vivo ormai da diversi giorni. Purtroppo però, come già accaduto in passato per simili occasioni, è accompagnato da disinformazione e mistificazioni atte solo a far valere determinate tesi. Tutto l’opposto di ciò che servirebbe al cittadino per un voto consapevole.

In questa analisi mi sono soffermato sulle questioni relative alla convenienza economica del mantenimento delle trivellazioni oggetto del referendum. Ho tralasciato, per motivi di spazio e di competenza, le questioni giuridiche (il costituzionalista Enzo Di Salvatore ha espresso dubbi sulla legalità della norma che permette le concessioni a tempo indeterminato, poiché violerebbe la legge sulla libera concorrenza) e soprattutto ho deciso di mettere da parte quelle politiche. Ritengo che un’alta affluenza al referendum possa contribuire a dare un segnale politico di una certa importanza, chiaramente non solo al governo Renzi ma più in generale a una classe dirigente spesso miope nella valutazione delle scelte ambientali di ampio respiro. Ma altresì ritengo che soffermarsi troppo sulle prospettive politiche rischierebbe di viziare una lettura razionale dei dati (spesso complessi) relativi al quesito referendario. Lascio momentaneamente questo compito ad altri.

Secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico, negli ultimi anni in Italia si è verificata una riduzione del consumo interno lordo di idrocarburi (nel 2014: -1,8% di petrolio e -11,6% di gas rispetto all’anno precedente). A questi dati generali, si accompagna un altro rilievo interessante: la quota di energia elettrica derivante dalle fonti tradizionali si sta riducendo palpabilmente (dal 53,3% del 2013 al 48,8% del 2014).

In altre parole, la nostra dipendenza energetica diretta e indiretta dagli idrocarburi è in calo. A prescindere dai dati sulla produzione, che, ricordiamo, viaggiano su binari separati rispetto ai consumi (1).

Tale dipendenza è destinata a calare anche per altri motivi, di carattere sistemico. Il prezzo del petrolio non potrà restare a lungo al livello attuale, cioè ai minimi. È soltanto questione di tempo, infatti, prima che esso faccia i conti con due fattori: l’abbassamento delle riserve globali (che, con i livelli attuali di produzione, ai massimi storici, potrebbero durare meno del previsto) e la tenuta politica del sistema mondiale. Non è un mistero che i principali Paesi produttori si trovino in grosse difficoltà a causa dell’azzardata politica dei prezzi scelta dall’OPEC. Alcuni, come Venezuela e Nigeria, sono già sull’orlo del baratro; altri, come Russia e Arabia Saudita, stanno facendo i conti con notevoli tagli di bilancio, insostenibili nel lungo periodo. Su tali fattori l’Italia e la sua scarsa produzione di idrocarburi difficilmente riusciranno a influire.

Dunque, nel breve o medio termine (presumibilmente entro i prossimi 5 o 10 anni) i prezzi dei combustibili fossili torneranno a salire. Quando ciò accadrà, inevitabilmente torneranno a crescere pure gli investimenti e l’innovazione nelle energie alternative, che ad oggi sono stagnanti (2). Ma a quel punto saremo già indietro rispetto ai Paesi che hanno saputo anticipare la soluzione della questione energetica attraverso lo sviluppo di fonti alternative.

D’altro canto, non si deve nemmeno pensare che il futuro aumento dei prezzi degli idrocarburi possa rappresentare un concreto vantaggio per la nostra economia. A differenza di quanto si voglia far credere, infatti, le entrate derivanti dalle attività estrattive restano una voce assai marginale nel bilancio statale italiano. Ciò è dovuto all’esiguità della nostra produzione (40esimo posto nella classifica mondiale), alla sua qualità (ritenuta dagli esperti di livello inferiore), alla nuova concorrenza internazionale dello shale gas e dello shale oil (l’innovazione americana che sta facendo tremare l’intero comparto mondiale) e, last but not least, alle bassissime rendite (le cosiddette royalties) che il nostro Stato impone alle compagnie del settore.

Le royalties ripagano l’Italia solo del 7-10% dei ricavi delle compagnie (3), una percentuale enormemente inferiore a quella richiesta da altri Paesi produttori, come quelli arabi.

A conti fatti, lo Stato italiano ricava poche centinaia di milioni l’anno da tutte le estrazioni effettuate nel territorio nazionale. Nel 2015, si è trattato soltanto di 350 milioni di euro. Una cifra davvero esigua: si pensi soltanto che il mancato accorpamento delle votazioni referendarie con quelle amministrative, da solo, è costato fra i 350 e i 400 milioni di euro. Importi dunque facilmente sacrificabili per i nostri governanti (4). Fin quando non aumenteremo i tassi delle royalties (cosa comunque auspicabile), il gioco non varrà di certo la candela.

Poi c’è la questione dei consumi. Al di là dei ricavi netti derivanti dalla tassazione delle compagnie petrolifere, la cessazione delle trivellazioni entro le 12 miglia marine potrebbe compromettere gli approvvigionamenti italiani alle risorse energetiche. O almeno così si dice. La realtà è un po’ diversa. Abbiamo già visto come produzione e consumi costituiscono dei dati che debbono essere distinti. La nostra produzione è destinata all’uso interno, ma non riesce a soddisfarlo nemmeno lontanamente: soltanto il 10% dei nostri consumi deriva dalla produzione fossile nazionale (presa per intero, considerando quindi anche gli impianti terrestri e quelli marittimi oltre le 12 miglia, non interessati dal referendum). Chiunque vinca il 17 aprile, quindi, l’Italia dovrà continuare a far leva sulle importazioni dall’estero.

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Le piattaforme interessate dal referendum del 17 aprile

La vittoria del sì, comunque, non si tradurrebbe necessariamente in un aumento del traffico delle petroliere, come predetto da molti. Innanzitutto perché la gran parte delle piattaforme oggetto del referendum (17 su 21) sono di gas (gran parte del quale viaggia da un Paese all’altro attraverso gasdotti e metanodotti); in secondo luogo perché la chiusura dei suddetti impianti comprometterebbe, come già indicato nella nota 1, soltanto lo 0,9% del consumo interno petrolifero. Nell’arco di 20 anni. Considerando che solo nel 2014 tale consumo si è già ridotto dell’1,8%, si può facilmente constatare come l’argomentazione del “traffico di petroliere” sia fondata più sulla retorica che su valutazioni concrete.

Infine, al di là delle questioni prettamente energetiche, vi è un’altra argomentazione ricorrente da sfatare: quella relativa alla perdita di posti di lavoro. Premesso che il referendum del 17 aprile riguarda l’abrogazione di una norma entrata in vigore solo l’1 gennaio 2016 (ovvero la proroga delle licenze di estrazione fino all’esaurimento dei giacimenti, prevista nell’ultima legge di stabilità) e che quindi si sta discutendo di posti di lavoro virtualmente inesistenti fino a qualche mese fa, c’è da dire che le stime relative a tali “perdite” sono molto discordanti. Si passa dalle 1000 previste da Greenpeace fino alle 10mila denunciate dal premier Renzi. Ammesso che abbia ragione Renzi, la cifra è comunque da prendere con le pinze, per due motivi.

In primis, non tiene conto delle circostanze. Se non contestualizziamo i numeri, possono sembrarci enormi. Ma, come nel caso delle entrate statali derivanti dalle royalties (300 milioni di per sé sembrano tanti, vero?) è meglio fare qualche precisazione. Diecimila posti di lavoro in meno, ad esempio, sono appena un sesto di quelli persi nel campo delle energie rinnovabili negli ultimi anni a causa dei mancati incentivi governativi. E non stiamo prendendo in considerazione le ricadute in altri settori, come quello turistico.

In secondo luogo, la cifra di Renzi non tiene conto della possibile (anzi, doverosa) riqualificazione dei lavoratori del settore. Nell’arco di venti anni c’è tutto il tempo utile e necessario, per le imprese in oggetto, di ricollocare i propri addetti in altri ambiti, magari “green”. Del resto, lo ripetiamo, la situazione sarebbe la stessa di qualche mese fa: gli impianti erano già destinati a chiudere alla scadenza delle precedenti concessioni. Se le compagnie di estrazione non avevano già pensato alla sorte dei propri lavoratori, la colpa non è certo dei comitati referendari.

Certi allarmi sulla tenuta dell’economia e dell’occupazione italiana sono quindi del tutto ingiustificati. Si basano su una serie di statistiche che, rapportate ai dati sistemici, quasi scompaiono per la loro modesta rilevanza. Il referendum del 17 aprile sarebbe dunque inutile, come qualcuno sostiene? No, perché può dare un forte segnale. Non solo al governo Renzi e all’ambientalismo italiano, ma anche e soprattutto alle politiche energetiche del nostro Paese, che dovrebbero mantenere un certo margine di autonomia rispetto alle compagnie petrolifere nazionali o estere operanti sul territorio.

I prossimi venti anni saranno cruciali per la ridefinizione della nostra Strategia Energetica Nazionale. Essa non potrà non tener conto della sempre più rapida evoluzione tecnologica in campo energetico, nonché delle mutevoli criticità del sistema internazionale, apparentemente sempre più instabile. Alla luce di queste considerazioni sarebbe davvero ingenuo credere che il sistema di approvvigionamenti non abbia bisogno di essere riformato, per essere più competitivo, meno inquinante e possibilmente meno dipendente dall’estero. Tre necessità che potrebbero essere risolte attraverso un’unica soluzione: ricerca e sviluppo, condotte in modo intelligente, con finanziamenti seri e costanti, nel campo delle fonti energetiche alternative. Non più solo uno slogan da campagna elettorale.

NOTE:

  1. Se al referendum sulle trivellazioni dovesse vincere il sì, l’Italia rinuncerebbe al 17,6% della produzione nazionale di gas (pari al 2,1% dei consumi) e al 9,1% della produzione nazionale di petrolio (pari allo 0,9% dei consumi). Appare quindi evidente la differenza fra l’estrazione di idrocarburi e il loro consumo nazionale (Fonte: https://aspoitalia.wordpress.com/2016/03/07/le-bufale-sul-referendum-del-17-aprile/).
  2. I mancati incentivi alle rinnovabili sono da addebitare in parte proprio ai bassi prezzi dei combustibili fossili, che li hanno resi più convenienti rispetto ad altre fonti.
  3. Per quanto riguarda le piattaforme marine, lo Stato esige il 7% dai ricavi delle estrazioni petrolifere e il 10% dai ricavi delle estrazioni di gas.
  4. Ad ogni modo il referendum del 17 aprile prenderà in considerazione soltanto un terzo delle piattaforme marine, che a loro volta rappresentano soltanto una frazione della produzione italiana di energie fossili. Con un eventuale vittoria del sì, dunque, le perdite nette per lo Stato saranno notevolmente minori rispetto alle cifre sopra indicate. Si veda anche http://www.ilpost.it/2016/03/08/guida-referendum-trivellazioni-petrolio/.

 

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