Specchio spauracchio

 

Che siamo animali sociali, questo è dato. Non c’è bisogno di riportare l’Etica nicomachea o altri scritti. Potremmo averne conferma diretta ogni giorno. E in quanto animali sociali, siamo portati ad adattarci alle richieste di una vita sociale.

Quali sono? Ad esempio le dinamiche di gruppo. Capire qual è il gruppo in cui poter vivere. Capire quale gruppo è il nostro gruppo di pari. Capire quali sono le regole di quel dato gruppo. Farle nostre e ripetere lo schema. Non per ripeterlo in sé ma per semplificare un comportamento etologico che troviamo sia nei grandi felini come i leoni sia in canidi come i dingo o i licaoni, sia in altri animali che sono obbligati ad evolvere un comportamento sociale: ripetere lo schema serve a rafforzarlo e creare maggiore unione in quel dato gruppo per darne un’identità.

Ecco cosa siamo. Ognuno di noi. Siamo soggetti attivi che ripetono uno schema e lo confermano o lo rigettano. Quando lo confermiamo, veniamo accettati dal gruppo che ha quello schema come dominante. Quando lo rigettiamo, sorgono i problemi. Perché possono verificarsi due casi, parimenti riscontrabili in natura: o si muore o si viene esclusi. Perché ciò che è più importante non è il singolo quanto la sopravvivenza del gruppo. Una legge naturale da cui non si scappa.

Quali sono però quei comportamenti sociali che sviluppiamo? Empatia cioè sentire chi ci sta attorno. Avvertire lo stato d’animo di chi ci sta attorno ci permette di stabilire una connessione e quindi di stringere alleanze, di avere intese. Comunicazione cioè essere esploratori di mondi che hanno colline di pelle e montagne di ciuffi di capelli. Compassione cioè non solo sentire ma anche patire e capire che la sofferenza non è un prodotto di una mente ma un’esperienza collettiva. Pacatezza cioè allontanare i comportamenti aggressivi, che non vuol dire essere remissivi ma avere sempre una parola gentile. Il pacato è forte, perché controlla. L’aggressivo è debole, perché non controlla l’unica cosa che dovrebbe controllare: il sé. No, a proposito di Etica nicomachea, non sono Aristotele, di certo. E non sono interessato a divenirlo, anche se questa piccola elencazione si avvicina ai contenuti dei vari libri lì contenuti.

Tra i tanti comportamenti sociali che sviluppiamo, ne abbiamo uno su cui mi trovo in difficoltà.

Specchio. Specchio riflesso. Specchio spauracchio. Specchio spauracchio di ciò che vedo riflesso. Ma se vedo riflesso, vedo me stesso e non l’altro.

Cosa voglio dire? Poniamo situazione immaginaria. Persona x e persona y fanno qualcosa assieme. Quale che sia. Mangiare un panino. Srotolare un rotolo di carta igienica. Fondare un giornale. Mangiare caramelle gommose. Non so, vedete voi. Persona x e persona y sono nello stesso gruppo di persona z, discussioni ed interazioni formali con persona z. Non perché sia piacevole l’interazione formale, quanto perché apparentemente l’unica forma accettata e voluta. Nella regola sociale, nulla si chiede, nulla si obbliga e nulla si elemosina. Persona z senza alcuna apparente motivazione e senza alcuna richiesta da parte della persona y, rilascia un parere, spesso molto negativo e non supportato da nulla se non un pensiero/equivoca percezione/equivoca traduzione simbolica di evento A. Succede che la persona y, sentendo quel parere, si trova davanti ad un bivio: vale più la conoscenza della persona x e quello che si sa della persona x o il parere negativo espresso dalla persona z che lo esprime perché non si sa bene quale esperienza l’ha condotta a quella conclusione?

Questo è lo specchio spauracchio. Specchio. Da speculum, specio, io guardo, ciò che mi serve a guardare. Ma a guardare cosa? Me stesso. L’altro. Non me stesso. E anche se guardo l’altro, in realtà guardo me stesso.

Ci sono molti esperimenti sul caso: il direct mirroring. L’avrete sicuramente visto da qualche parte. L’esperimento in cui una persona viene fatta sedere di fronte ad un’altra persona, possibilmente uno sconosciuto. Qual è lo scopo di questo esperimento? Che nel direct mirroring, avendo davanti l’oggetto del nostro guardare, siamo meno inclini ad idealizzare e quindi aggiungere o togliere caratteri secondo la nostra libera interpretazione. Nel direct mirroring si forza un fenomeno naturale di adattamento all’altro. Per cui vedendo l’altro immediatamente percepiamo l’altro. Se ha una respirazione affaticata. Se ha lo sguardo vitreo. Modifichiamo il nostro comportamento in base a chi abbiamo davanti. E la condizione in cui chi ho davanti, è. Io guardo l’altro e mi faccio guardare.

Sembra banale ma sono esperimenti molto importanti nel campo del comportamento umano. Ad esempio, se a due persone fate vedere uno stesso soggetto x, il bagaglio culturale e le credenze personali di quelle persone, possono modificare significativamente l’idealizzazione di quella persona e persino la percezione che ne abbiamo. Esempio pratico: se poi chiedete a quelle persone di dare delle descrizioni mentre un disegnatore segue le loro istruzioni noterete un fenomeno inquietante e al tempo stesso affascinante. Se una persona ha dei pregiudizi negativi, la descrizione che darà di quella persona, farà emergere dal ritratto una persona molto diversa. Con tratti minacciosi. Se invece quella persona non ha pregiudizi specifici, il ritratto sarà abbastanza somigliante.

Chiamato anche pacing o matching ha a che fare con lo stato naturale cui l’uomo sottende come tutti gli altri mammiferi (ad oggi gli studi sul campo etologico mostrano che questo comportamento adattivo esiste solo tra i mammiferi.). Percepire l’altro ti permette di sopravvivere e capire se l’altro è ostile o amichevole. Se puoi cacciare assieme o se invece può trattare il grano. Percepire è l’adattamento più importante che abbiamo. L’evoluzione ha portato la nostra anatomia cerebrale a rendere maggiormente prominente la parte deputata all’idealizzazione, e concedetemi la speculazione, è per questo forse che idealizziamo più di quanto si dovrebbe.

Ecco: questa è una cosa che non capisco. Quando qualcosa non la capiamo, invece di farci una nostra idea e di interpretare un evento, attribuendogli valori che non ha, ma che noi evidentemente conosciamo altrimenti non riusciremmo a conoscerli nell’altro suo malgrado, perché invece non andiamo direttamente dalla persona x a chiedere: è successo questo, perché? Oppure, vedo questo evento, da cosa è stato prodotto? Perché l’hai fatto?

Invece proprio durante la settimana mi è capitato di esser stato rimproverato di essere una cattiva persona, di essere uno stronzo. Sono stato ammonito di fare attenzione alla sensibilità di qualcuno. Perché si sa che io sono uno stronzo. Che sono una persona falsa. E quindi torna lo specchio spauracchio. Vedo nell’altro ciò che conosco.

Io guardo. E non c’è uno specchio davanti ai miei occhi. Tutti gli specchi attorno a me li ho rotti procurandomi anni su anni di sfortuna. E per ogni specchio rotto, ne trovavo almeno altri dieci. E li ho rotti tutti. Non con violenza. Non con presunzione. Non con irruenza.

Con una semplice domanda, diretta, spontanea e genuina; come fanno i bambini: perché?

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