Ma è davvero Possibile l’alternativa di sinistra?

Proviamo a rispondere a questa domanda con la massima onestà intellettuale.

Per farlo, prima di tutto occorre sgombrare il campo da pregiudizi, partigianerie e confronti poco sensati. E’ del tutto inutile, ad esempio, fare indebiti paragoni con la Grecia o la Spagna. Ed è inutile anche spiegare perché.

In secondo luogo bisogna ignorare, almeno per un po’, gli “scienziati della politica” (da distinguere dagli scienziati politici, che non hanno ancora fatto nulla di male): opinionisti e predicatori che credono di avere la verità in tasca, la esibiscono con arroganza e alla fine, spesso e volentieri, vengono smentiti dalla storia. “Bersani vincerà facilmente”, “Grillo provi a farsi un suo partito”, “la Lega Nord è morta”: solo per citare alcune delle previsioni più brillanti degli ultimi anni (e per carità di patria evitiamo di riportare i “totoquirinale” e i “totoministri” con cui i maestri della fantapolitica ci hanno tante volte deliziato). A sentire i loro ultimi mantra, Civati è già spacciato, dato a un livello tra il 2% e il “prefisso telefonico”.

Nulla impedisce che gli scienziati della politica possano sbagliarsi ancora una volta. O no?

Cacciati quindi un po’ di oracoli dal nostro ragionamento (tanto torneranno, sono già dietro l’angolo pronti a inebriarci con nuovi infallibili sondaggi), proviamo a fare un’analisi un po’ più seria.

Cosa serve a Possibile per emergere nel panorama politico italiano?

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Partiamo dalla cosa meno importante: la forma. Si può chiacchierare molto sul simbolo, sul colore, sul nome “Possibile”, ma in cabina elettorale tali considerazioni perderanno ogni valore (e se invece così non fosse, a perdere ogni valore sarebbe il suffragio universale). Molto più sensate invece, ma ancora non prioritarie, le discussioni sulla struttura che il partito dovrà assumere nei territori e sulle modalità di scelta dei suoi rappresentanti: non rilanciare lo strumento delle primarie, ad esempio, potrebbe rivelarsi un grosso errore di prospettiva.

Lo spazio politico. A dispetto dei luoghi comuni esiste, ed è potenzialmente enorme: oltre ai consensi lasciati per strada dal Pd e al deserto creato dall’inconsistenza delle forze politiche alla sua sinistra, vi è una prateria di astensionisti di cui si parla troppo poco.

Non bisogna però lasciarsi andare a facili entusiasmi. Per occupare uno spazio politico non basta riempirlo teoricamente, occorre rappresentarlo. E, se da una parte è abbastanza facile intuire perché gli elettori siano diventati astensionisti, dall’altra non sono sempre chiari i loro (presunti) orientamenti politici. Ma da tanti elementi possiamo presumere che buona parte di quegli elettori guardi a sinistra, proprio perché a sinistra oggi non c’è praticamente nulla, politicamente parlando. La destra invece in questa fase è sovra-rappresentata, e non dovrebbe essere difficile per un suo simpatizzante trovarne la sfumatura più soddisfacente.

I tempi. Non vogliamo qui riprendere la diatriba, per quanto interessante, sul tempismo di Civati nel suo abbandono del Pd. Sarebbe dovuto uscire prima o dopo? E’ senza dubbio una questione appassionante che intrigherà parecchie generazioni e dividerà gli storici. In attesa dell’ardua sentenza, però, si può anche pensare ad altro. Ad esempio se oggi il momento è maturo per l’ascesa (quindi non solo la creazione) di un partito di centrosinistra alternativo al Pd. Non appartenendo ai già citati scienziati della politica, eviteremmo giudizi perentori. Ma una cosa è certa: dal 2013 la politica italiana è entrata in una fase “liquida” senza precedenti. Il boom del Movimento 5 Stelle, la morte annunciata del Pd e la sua rinascita renziana, la meteora di Monti e la scomparsa del Terzo Polo, la fine del berlusconismo attivo e l’ascesa di Salvini (e l’elenco, naturalmente, potrebbe continuare).

Forse è il momento giusto, perché gli elettori non hanno ancora deciso cosa fare “da grandi”. O più semplicemente sono confusi, disorientati da un tasso di trasformismo senza precedenti (oltre 250 cambi di casacca in Parlamento in due anni di legislatura) e da un’offerta politica in continua evoluzione. La liquidità elettorale può essere naturalmente sia un vantaggio che un pericolo per tutti, e ciò dipende da chi (e come) la sfrutta.

Percezioni e credibilità. Anche di fronte a vasti spazi e ottime opportunità, resta la questione della percezione. Ovvero l’eterno problema della profezia che si autoavvera: “Civati non ha speranza di vincere, non voto Civati, Civati non vince”. Più intuitivo di un sillogismo aristotelico, più letale di un accordo con Mastella.

E’ ovvio, quindi, che il supremo interesse di Possibile sia quello di rompere questo circolo vizioso al più presto, appunto, possibile (mi si perdoni il gioco di parole).

Come farlo? Con una buona comunicazione, naturalmente, ma anche con una giusta dose di strategia politica. Rompendo lo schema del partito personale, chiuso e settario, e aprendo a nuove forme di partecipazione. E qui entra in gioco la credibilità. Alle parole devono seguire i fatti, e a pensarci bene questo è uno dei modi più evidenti per marcare la differenza con gli altri soggetti politici. La coerenza, comunque, è elemento necessario ma non sufficiente per essere credibili. L’autorevolezza è il pezzo mancante. Ma questa non arriva da sola, e non basta un po’ di buona volontà per ottenerla: è frutto di anni di lavoro e deve essere riconosciuta dagli altri. Però prescinde in buona parte dai risultati elettorali (giusto per smentire un altro luogo comune).

Possibile assemblea

Contenuti e alleanze. Il programma è in buona parte già delineato, e non dovrebbe rivelare sorprese. Si tratta, in sostanza, di qualcosa di simile al programma elettorale di Italia Bene Comune (ricordate? la coalizione Pd-Sel del 2013, un secolo e due governi fa). Insomma, non proprio roba che ti faccia sentire in sottofondo la fanfara dell’Internazionale Comunista, mentre la leggi. Ma per qualcuno è già troppo progressista. Evidentemente, anche a sinistra, molti hanno accettato politiche che in altri tempi probabilmente sarebbero state contestatissime (Jobs act e riforma della scuola, per fare due esempi). Parole come uguaglianza, diritti civili, legalità, ambiente e solidarietà andrebbero recuperate. Perché se ne parla male oppure troppo poco.

Quello che Possibile non deve fare, invece, è inseguire i dogmi di una sinistra “fuori dalla storia”, o comunque fuori tempo massimo. Per essere realmente inclusivi (e quindi competitivi), bisogna saper avvicinare l’elettore medio italiano, che probabilmente vede in Civati un novello Bertinotti e ancora teme inconsciamente l’arrivo dei cosacchi a San Pietro. Non si tratta certamente di fare tristi e triti appelli ai “moderati” (anzi si spera che questa moda si esaurisca al più presto), ma di saper interpretare i bisogni sociali del XXI secolo.

Un simile ragionamento deve valere anche per le alleanze. Inutile, anzi del tutto controproducente, ripescare vecchi leader ormai inesorabilmente extraparlamentari, che hanno già avuto modo di mostrare il peggio di sé durante le ultime elezioni europee. Stima e rispetto per i compagni ma poi stop, con Prodi si è già dato. Con Sel una convergenza appare più naturale. In linea di massima, non si dovrebbero nemmeno escludere potenziali intese col Pd (specie a livello locale). Ma è ancora presto per gli accordi: prestabilire delle alleanze è generalmente segno di debolezza e scarsa identità.

La priorità di Possibile è una: affacciarsi sulla società italiana, scrollandosi di dosso i pregiudizi riguardo l’individualità o il tatticismo della sua iniziativa politica. Le già annunciate campagne referendarie, da questo punto di vista, possono essere un ottimo punto di partenza.

Ma c’è ancora tanta strada da fare, prima che l’alternativa di sinistra diventi realmente Possibile.

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