Non è tutto oro (nero) quello che luccica

La corsa al ribasso del prezzo del petrolio sembra non conoscere più soste. Trascinata in un primo tempo dall’utilizzo americano delle tecnologie di estrazione dello shale oil, e dalle strategie saudite per contrastare quest’ultimo e al contempo l’ascesa di Teheran (ne avevamo parlato qui), oggi il trend continua anche per via dell’apporto di nuovi elementi. Tra questi, la fine delle sanzioni economiche all’Iran (che gli consentiranno di esportare senza più limitazioni il proprio greggio), i cambiamenti dei flussi di mercato dell’oro nero (molti Paesi produttori hanno iniziato a cercare nuovi acquirenti asiatici, data la sovrapproduzione americana) e la persistente debolezza delle economie importatrici (Paesi europei in primis) che hanno ridimensionato gli acquisti.

Certamente, siamo stati tutti contenti nel vedere i prezzi di benzina e gasolio scendere nel corso degli ultimi mesi, anche se in modo non del tutto proporzionale alle riduzioni di prezzo nel mercato del petrolio greggio. Ma, a parte il fatto che tali abbassamenti non continueranno all’infinito (per essere chiari, in Italia non si scenderà mai sotto la soglia dei 90 centesimi al litro, per via delle elevatissime, e molto discusse, accise sui carburanti), basta guardare agli effetti di più ampia portata per smorzare un po’ di entusiasmi.

Come si può ben vedere dalle recenti reazioni delle borse europee e mondiali, infatti, il continuo abbassamento dei prezzi del petrolio non è necessariamente una buona notizia, anzi.

A preoccupare gli analisti sono soprattutto alcuni fattori.

Se da un lato il petrolio ribassato trascina con sé anche i prezzi delle fonti di energia e delle materie prime collegate (carburante, elettricità) e quindi può aiutare indirettamente la ripresa attraverso i consumi, dall’altro tale effetto rischia di essere solo transitorio e di portata marginale. La stabilità economica dei Paesi europei è nuovamente messa a rischio dalle nuove turbolenze internazionali, molte delle quali collegate appunto al prezzo del greggio.

Il calo dei prezzi si traduce in crisi delle aziende produttrici: solo nel 2015 sono stati persi, in tutto il mondo, circa 90mila posti di lavoro nel comparto petrolifero. I licenziamenti ovviamente coinvolgono lavoratori di tutti i continenti, dagli Stati Uniti all’Angola, dall’Azerbaijan al Mare del Nord. Ai “costi umani” devono aggiungersi le perdite delle società quotate in borsa, che trascinano con sé l’andamento dei listini e quindi della finanza globale (come è ben visibile negli ultimi giorni).

Naturalmente, poi, vi sono gli aspetti geopolitici. Importantissimi, vista la rilevanza che l’oro nero ha assunto nelle economie di molti Paesi produttori. Se, infatti, non sussistono grandi preoccupazioni per la tenuta di Paesi come Gran Bretagna e Norvegia (produttori con un’economia diversificata), lo stesso non può dirsi dei cosiddetti “rentier states”, ovvero quegli Stati che hanno puntato tutto o quasi sulla vendita degli idrocarburi. Tra di essi, oltre a molti regimi africani e mediorientali, spiccano ultimamente anche Paesi relativamente avanzati come la Russia.

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Principali Paesi produttori e consumatori di petrolio. La mappa non tiene conto delle recenti produzioni di shale oil statunitense.

Quali sono le principali incognite in tal senso?

Partendo proprio dalla Russia, risulta oggi evidente come la crisi dei prezzi del petrolio stia influenzando la politica di Mosca. È di pochi giorni fa la notizia di un taglio del 10% nei bilanci statali del Cremlino: secondo gli stessi esperti russi, l’attuale sistema di sovvenzioni statali può essere garantito solo attraverso il mantenimento di una certa media di rendite petrolifere (90 $ al barile, circa il triplo dei prezzi attuali). L’avventurismo internazionale di Putin, ottimo per distrarre la popolazione dalle ristrettezze economiche (inflazione, rublo ai minimi e sanzioni) e per mettere pressione sui partner occidentali, non potrà pagare all’infinito. Anzi, secondo i ben informati a Mosca si è già alla ricerca di una buona exit strategy.

L’Arabia Saudita, di fatto l’autrice di questa tempesta perfetta, è già al centro delle attenzioni mediatiche per la sua spregiudicatezza nella gestione degli affari internazionali. In realtà, le mosse di Riyad sono in larga misura dettate dalla paura di perdere influenza economica (per via della nuova concorrenza petrolifera americana) e politica (a causa del ritorno in grande stile di Teheran sulla scena regionale). La strategia ribassista funzionerà solo se i concorrenti si arrenderanno al più presto. Cioè prima che lo stesso regime saudita collassi.

L’Iran, il grande rivale dei sauditi, avrà bisogno di tempo prima di comprendere pienamente gli effetti derivanti da entrate petrolifere così basse. Le perdite, infatti, sono compensate dalla crescita, dai nuovi investimenti internazionali post-embargo e dall’ottimismo sempre più diffuso tra la popolazione. I maggiori rischi, però, derivano dal livello di scontro con Riyad. Al di là dei conflitti in corso in Siria e Yemen[1], infatti, non ci è dato sapere quanto Teheran sia disposta a tollerare la linea economica dei sauditi e dei loro soci nel Golfo.

Altri due grandi Paesi produttori che rischiano moltissimo sono il Venezuela e la Nigeria. Il primo è già di fatto in bancarotta, in mano (si fa per dire) a un regime che non riesce più a trovare gli strumenti per legittimarsi. La seconda ambisce a un ruolo guida regionale, ma non riesce ancora ad affrancarsi dalla piaga del jihadismo (Boko Haram) e dalle fratture sociali interne (Delta del Niger). Non c’è nemmeno bisogno di elencare le possibili conseguenze di una persistenza di scarsi introiti petroliferi.

La lista non finisce qui. Nell’occhio del ciclone stanno finendo tanti altri Paesi cruciali (a partire dal Brasile, sempre più in crisi), in via di sviluppo (Angola, Ecuador) o già in forte crisi (Iraq, Libia). Altri Stati ancora (Egitto, Giordania, Cuba, etc.) dipendono almeno in parte dalle sovvenzioni di alcuni dei produttori già citati.

E non dobbiamo illuderci che tali questioni restino limitate a certe aree. I mancati introiti dei Paesi produttori hanno conseguenze dirette non solo sulle loro stesse economie, ma anche sui rapporti commerciali che essi detengono con Europa e Stati Uniti: a risentirne, ad esempio, sono le nostre esportazioni di beni e servizi verso quei Paesi.

Quali sono i possibili scenari per il futuro?

I bassi rendimenti potrebbero costringere i nuovi produttori di shale oil ad abbandonare i propri progetti, avvantaggiando chi ancora usa i metodi di estrazione tradizionali. Questa, che secondo molti analisti sarebbe stata la tattica usata dall’Arabia Saudita per stroncare la nuova concorrenza (soprattutto americana) sul nascere, in ultima istanza dovrebbe scoraggiare nuovi investimenti.

Ancora non è chiaro chi vincerà questa battaglia. Se la vinceranno i sauditi, potremo dire addio a buona parte della ricerca nel settore: l’OPEC avrà dimostrato di essere più forte di qualsiasi sfida esterna. La produzione potrebbe tornare a restringersi, e i prezzi, quindi, dopo un po’ risalirebbero. Se invece la battaglia dovesse essere vinta dai nuovi produttori, la situazione dovrebbe restare simile a quella attuale, ma con una differenza sostanziale: l’Arabia Saudita avrà perso la sua rischiosa scommessa (nonché la sua leadership nell’OPEC) e dovrà fare i conti con gravissime perdite finanziarie, trascinandosi peraltro dietro tanti altri Paesi non attrezzati ad affrontare basse entrate energetiche nel lungo periodo: i già citati Venezuela, Nigeria, Iran e Russia.

Non esiste dunque una soluzione ideale, né alcuna previsione realmente attendibile, ma un’unica certezza: non ci sarà molto da sorridere di fronte all’ennesimo ribasso.

 

[1] Guerre in cui le due potenze rivali del Golfo sono direttamente coinvolte.

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