Vedere il dito e non dove punta.

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600 professori universitari denunciano. Cognomi altisonanti. Personalità di rilievo.

“da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche” e tante altre frasi ad effetto pronte per far vibrare di spasmi orgiastiche i titolisti delle varie testate, che, inebetiti dalla necessità di fare pubblico, non sanno più di cosa parlano, come ne parlano, perché ne parlano, con chi ne parlano e ancora più gravemente: quando ne parlano.

Bella la retorica. Bello il compianto. Bella la lamentela. Solo un docente, mi pare esprimere una posizione coerente: «forse stiamo risentendo anche di una svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni 70 […] l’italiano non è l’italiano, è il ragionare».

Si. Avete ragione. Pienamente.

Facciamo una cosa. Facciamo che vi risponde uno studente. Facciamo che vi risponde uno dei tanti verso cui puntate il dito. La generazione. I giovani. Cari docenti universitari, vorrei incontrarvi uno per uno per saggiare la vostra profondità d’animo e la vostra perfettissima preparazione. Perché è un esercizio fin troppo semplice, per un docente, quello di rilevare una mancanza e di correre al capezzale del ministero con una lettera firmata da 600 personalità del mondo accademico.

Cari docenti. Che ne è dei discenti? Non cerco la colpa. Non l’ho mai cercata. Ma voglio capire cosa vi spinge a denunciare qualcuno di cui non vi interessate. Cosa vi interessa? Vi interessa costringere gli studenti a comprare  i vostri libri che fate firmare regolarmente agli esami? Pratiche ancora largamente in uso in alcune università meridionali. Vi interessa cosa? Farvi rivalsa di anni di frustrazione su studenti desiderosi di apprendere, facendo loro notare come voi siete il docente e avete qualcosa che non si capisce bene cosa sia? Incapaci di argomentare, spesso vi recate stanchi e delusi, trincerandovi dietro banchi così vecchi quanto il vostro metodo di insegnare. Vi lamentate, a ragione, della mancanza di una corretta cultura diffusa della grammatica. E della filosofia? E della prosa? Della cultura, che ne facciamo?

Perché siete diventati così egocentrici da pensare che ruoti tutto attorno a quello che insegnate? A voi? No. Miei cari docenti. Per quanto indignati, noi lo siamo di più. E se non lo siamo noi, lo sono io. Io studente. Sono indignato perché sento docenti lamentarsi della cultura, senza, nel corso dei miei 30 anni, aver incontrato un solo docente che facesse nascere in me quel desiderio e quella curiosità di apprendere e capire. Al liceo, rispettabile liceo classico della mia città natale, un docente peggiore di un altro. Un docente di scienze che si perdeva in classe dietro fesserie. E dire che oggi studio Medicina. Un docente di italiano che scimmiottava, lasciava la classe per andare a lavarsi i denti. Dante offeso. Calvino dilaniato. Ho dovuto scoprire tutto molto più tardi, da solo. E che scoperta. Innamoramento. Perché non può che essere così, avvicinandosi in punta di piedi e umiltà alla cultura.

Gli unici due, grandi, immensi docenti che ricordo aver avuto erano un docente di Lingue e letterature classiche, latino e greco, epica. Un docente capace di far venire quella curiosità ad ogni discente. Cavillare con le parole. Formarsi e formare. E due docenti, assieme, una professoressa di Lingua e letteratura francese e un madrelingua di lingua francese. Che insegnarono lingua francese, grammatica, letteratura, teatro. Ce lo fecero anche vivere. E capire. Ci fecero abbattere quella barriera che c’è tra il vostro balbettio insicuro dietro un ruolo spesso vituperato con isteriche divagazioni e la cultura, la Cultura, quella vera. Quella che vive. Ricordo anche una professoressa di Storia e Filosofia. Forse ero immaturo io, forse troppo piccolo. Non ricordo Talete. Non ricordo Socrate. Non ricordo Aristotele. Non ricordo Nietzsche. O Popper. Hegel O Kant.

Li dovetti scoprire da solo, molti anni dopo. E fu amore. La vita è inscindibile dalla filosofia.

Ma no, voi vi chiudete e vi siete chiusi, nel vostro metodo arcaico in cui uno parla e uno ascolta. E se non ascolta, è stupido, è lento, non è adatto. Non rende. Bocciare. Espellere. Rifiutare.

No. Cari docenti, se siamo dove siamo, il merito è vostro. Fatevi un esame di coscienza. Perché non ci sto a puntare il dito verso i ragazzi e le ragazze che siedono sui banchi. Perché se non capiscono Nietzsche è perché voi non parlate dell’oltre-uomo e delle stelle danzanti. Se non capiscono le regole delle grammatica e non le usano, è perché non siete in grado di fargli capire che sono delle coordinate per muoversi in un mondo alla scoperta del fantastico.

Voi. Proprio voi docenti. Quanto spesso vi fermate a parlare con i discenti? Quanto spesso consigliate delle letture che non siano canoniche? I programmi. I programmi. Siamo indietro coi programmi. Benvenuti nel mondo, sarete sempre indietro con i programmi. Ed è per questo che siamo dove siamo. Perché tenete più ai programmi da chiudere che alle menti da aprire. E mi spiace, in questo, avete e state miseramente fallito.

Non mi sorprende, però e non è un j’accuse. Anzi. Capisco la notizia. E capisco l’indignazione. Ciò che non capisco è perché non lasciate le cattedre e vi sedete in mezzo ai ragazzi per viaggiare assieme a loro. La Cultura non è regime. Non è imposizione di regole dall’alto. E questo è il vostro metodo. Uno parla, uno ascolta. Non funziona così. Ma del resto non posso sperare che voi mi capiate. Ci avete chiamato in tanto modi. Generazione x. Generazione Y. Millennials. Vedete? Proprio non vi riesce di capire. Noi, non ci chiamiamo. Siamo. Non perdiamo tempo a categorizzare. Noi, viviamo. Volete che la grammatica abbia il posto che merita? Svegliatevi dal vostro torpore e ridatecela dinamica.

Non mi aspetto che le parole qui si sopra vengano interpretate per il loro senso, quello che io gli ho dato. Perché? Perché voi siete stati la generazione che ha costruito un muro, molto tempo fa. Noi siamo la generazione che quel muro l’ha abbattuto.

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