Vedere è vedersi

Cecità.
Vagabolando è essenzialmente vita. Quindi mi pare coerente attingere dalla vita per scriverne.

Ne scrivo adesso, non perché accadde adesso. Quanto perché, stamattina, circumnavigando il colonnato di San Pietro mi sono reso conto di essere cieco. La mia strada. I miei passi. Le genti. Ma ero cieco. Ad ogni passo, girandomi attorno, ho cominciato a fermarmi per vedere. E ho visto senza tetto. Ho visto persone. Ho visto genti. Come me che scrivo. Come voi che leggete.

Ho visto persone che provavano a contrastare il freddo con una coperta non più calda o spessa della mia sciarpa. Ho visto uomini e donne, senza calze provare a rannicchiarsi per trattenere il caldo maggiormente. Ho deciso che oggi stesso comprerò delle calze pesanti per farmi un giro nella piazza che dovrebbe essere la piazza degli ultimi, dei poveri e degli affamati e invece è la piazza dei primi, dei togati con le croci d’oro sul petto e delle udienze-del-Papa-perché-siamo-bravi-cristiani.
Ho visto. “È una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto ai morti e non vederli.” Jose Saramago, Cecità, (un libro che consiglio di leggere e un film che consiglio caldamente di vedere, Molto forte).

Passiamo ad altro. Vi parlavo della vita e del vissuto di ogni giorno. Ebbene. Essere ciechi ha più di un significato da non sottovalutare nel nostro quotidiano. Una cara ragazza e collega, un giorno mi disse sorpresa, di quella sorpresa che ti lascia in parte interdetta in parte contenta: “davvero vedi tutto questo in me?”. Parlavamo di viaggi. E di buio. Parlavamo di chi si è, quanto si viaggia e dove quando si ha lo sguardo da qualche altra parte. Del resto, ognuno di noi è sempre da qualche altra parte.

close-to-godPerché ne era sorpresa? Cosa avrei dovuto non vedere? O cosa avrei dovuto vedere? Cosa era solita che altri vedessero? Riprendendo la citazione di Saramago, è una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto anche alla vita, accanto ai vivi, però, non vederli. Con le loro vite. Con il loro vissuto. Ognuno di noi vede chiunque altro senza vedere cosa e chi. Cosa intendo? Provate, la prossima volta in cui vi troverete con un amico, con un collega, con la ragazza o il ragazzo, a capire senza chiedergli nulla, qualcosa del sé. Qualcosa di quel sé intimo e segreto che ognuno di noi custodisce gelosamente. Provatevi. Scoprirete che in buona parte, non si riesce a vedere la persona. Ed è un esercizio difficile leggere una persona. Occorre capirne I silenzi. Interpretarne le risa. Occorre fare una cosa che spesso non si fa nemmeno con la propria persona. Occorre entrare nella profondità dello sguardo, dell’animo e capirne i turbamenti. Non si può essere empatici in ciò che non si conosce ma si può percepire e comprendere il dolore, la sofferenza, la paura, lo stress. Ogni declinazione insomma dell’animo umano che affligge chi viaggia con lo sguardo in una terra senza confini e sentieri.

Non è mica tutto buio. Anzi. Molto spesso, la meraviglia si rivela agli occhi di chi sa dove cercare. E quella, la meraviglia, quella si che è difficile vederla. Non perché sia difficile in sé. Quanto perché molto spesso, la meraviglia del nostro individuale vivere, viene nascosta dalla superbia, dall’ego, dal rumore, dal giudicare l’apparire, dal vedere ciò che si vuole vedere. Pensate a quante meraviglie silenti vengono ignorate.
Eppure è tutto lì. Spesso. Non è nascosto. Non è mascherato. Nulla: è solo lì, pronto per essere letto. E allora perché non riusciamo? Perché non riusciamo a vedere e vederci?L’essenziale è invisibile agli occhi. E quell’essenziale non lo vediamo se non lo sentiamo. Citando ancora. E continuando a citare, stavolta un’antica sapienza popolare, “non si capisce che quel che si conosce”.

Per entrare in contatto (non a caso, con la vista ho usato il tatto: questo vedere è un contatto a distanza, perché ci si tocca senza toccarsi e ci si parla senza proferire parola) e vedere, però, abbiamo bisogno anche della delicatezza. Perché senza delicatezza, non daremo la possibilità a chi vogliamo vedere, di aprirsi, permettendoci di vedere, appunto. Ed ecco che l’esercizio del vedere, è un vedere noi stessi. Perché vedere, è un esercizio. E svolgere l’esercizio ci dice quanto ci siamo esercitati e se l’abbiamo fatto bene o meno.

Vedere è vedersi.

 

 

 

 

 

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